8 novembre '16 - mercoledì 8th November / Wednesday visione post - 19
Scende il russo, sale il farsi. L'inglese vince sempre la sfida
globale, ma da solo non basta più: il futuro è plurilingue.
Ecco i nuovi report sullo stato di salute degli idiomi nel
mondo.
( da 'DRepubblica' - 15 ottobre '16 - di Elisabetta Muritti)
Essere più o meno parlata nel mondo non rende una lingua più o meno influente, connessa
alle altre e dunque internazionalmente potente. Lo dimostrano anche le cifre diffuse dal
World Economic Forum di Davos (tratte dal quotidiano
South China Morning Post, che
rielaborano i dati del progetto di ricerca
Ethnologue). Il cinese in tutte le sue numerose
varianti (mandarino, Wu di Shangai e cantonese in testa) è parlato, letto e scritto da più
di un miliardo e 197 milioni di asiatici, distribuiti in 33 nazioni. Ma- nonostante la Brexit-
l'inglese continua a vincere la sfida globale: è di casa in 110 nazioni. Lo spagnolo "solo"
in 35, anche se è parlato da 399 milioni di persone, contro i 335 milioni di "English spea-
king". L'arabo lo parlano in 242 milioni, in 60 paesi. Giovanni Gobber, preside della fa-
coltà di scienze linguistiche e letterature straniere dell'Università Cattolica di Milano,
commenta: "Il Global English, nei suoi vari standard, è indissolubilmente legato a quel-
li che noi linguisti chiamiamo i domini d'uso, che sono quelli oggi importantissimi della
medicina, dell'informatica, dell'aviazione, della scienza". Continua: "Tant'è che i cinesi
stanno investendo moltissimo nel suo apprendimento e nella sua promozione: l'inglese
consente la comunicazione scientifica, il che vuol dire finanziamenti. I cinesi vogliono
essere influenti, per loro non è economicamente interessante imporre una lingua com-
plessa da maneggiare, e così variabile rispetto allpo standard di Pechino".
E però, è la conclusione di molte analisi, l'inglese da solo oggi non basta più. Se, in pa-
role povere, si vuole competere nell'economia globale e cercare la propria "occupabilità",
come dicono gli economisti, di lingue ne servono di più. A tal rigu%ardo la Cardiff Uni-
versity's Business School ha reso pubblico uno studio secondo il quale la mancata cono-
scenza di altre lingue costerebbe agli inglesi 48 miliardi di sterline ogni anno, circa il 3,5
del loro Pil. L'
Economist ha calcolato che un dirigente Usa guadagna in media il 2% in
più per ogni altra lingua che impara. Non un granchè. Però, se le lingue le ha studiate per
tempo e messe nel CV il suo primo stipendio da neolaureato è di 45mila dollari all'anno,
contro i 30mila del collega monolingue. Le analisi del Mit (Massachusettes Institute of
Technology) hanno chiarito tale plus: lo spagnolo vale l'1,5%, il francese il 2,3, il tede-
sco il 3,8. Ma il partigiano più recente e sorprendente del superbusiness multilingue è
Michael Skapinker, editorialista del
Financial Times. Che spiega: un manager che co-
munica verbalmente in inglese si semplifica la vita, e di molto; ma se si ostina a parla-
re solo la lingua del posto, è un furbo. Costringe gli altri d ascoltarlo con calma, si fa
ricordare per la competenza e non per la verve; le sue reazioni sono giocoforza più
fredde e ponderate; e ne è temuta, nelle contrattazioni, la capacità di stanare stereotipi
e abitudini controproducenti.
Quali sono allora le lingue più remunerative da imparare, affiancandole all'inglese?
"L'ovvio consiglio è di scegliere quelle 'necessarie'. Quindi, occorre un'analisi preli-
minare dello stato di salute dei principali idiomi forti", premette Gobber. Che elenca:
"Del
cinese saliranno i numeri ma calerà il prestigio.
Il francese regge molto bene al
tempo, sempre che i suoi paladini non lo pensino più su modello 'Hexagonale' e ac-
cettino le differenze tra scritto e parlato. Sintetizzerei: stabile la sua diffusionme, im-
portante, e il suo prestigio nella cultura, nella diplomazia, nel turismo, nelle organiz-
zazioni intergovernative come l'Onu".
Lo spagnolo non andrà mai sottovalutato; sa-
rà stabile quanto a "valore economico" e, se non aumenterà di prestigio, lo farà per
diffusione, grazie soprattutto alla culla della sua cultura rock/pop, gli Usa.
Il giap-
ponese vive una seconda primavera in una nicchia culturale legata al design e alla
moda: ne è insomma percepita la raffinatezza.
Lucianone.