Parlando di manifestazioni di piazza
(vedi l'ultimo sciopero europeo
del 14 novembre scorso)
è necessario fare riferimento a due concetti fondamentali, che dovrebbero essere ancora
le basi delle attuali società occidentali: democrazia e libertà, l'una non escludendo l'altra,
il chè pare essere chiaro-lampante, ma purtroppo non sempre è vero e accade.
Andando a vedere, in giornali e siti internettiani, le varie analisi su quella manifestazione
di studenti e non solo, ne ho trovata una molto appropriata ma anche molto approfondita:
è l'analisi del direttore di 'la Repubblica', Ezio Mauro, pubblicata due giorni dopo quella manifestazione (venerdi 16 novembre), e dal titolo emblematico: 'Un deficit di libertà'.
Eccolo, riportato per intero. (Lucianone)
(da la Repubblica - 16/11/'12 - di Ezio Mauro)
Un deficit di libertà
Soltanto chi non vuol vedere ciò che ha sotto gli occhi può ridurre ad una questione di ordine
pubblico la mobilitazione contro l'austerità, per il lavoro e il welfare che ha riempito mercoledì
le piazze d'Europa. - Sulla violenza abbiamo imparato ad essere netti e precisi: chi va in strada
per rivendicare i suoi diritti non ha nulla a che spartire con chi cerca lo scontro fisico con la polizia o compie atti vandalici, presenze che vanno dunque denunciate, isolate e contrastate sen-za nessuna forma di ambiguità. Nel farlo, la polizia ha il dovere di ricordarsi di essere al
servizio di uno Stato democratico e dunque mentre garantisce la sicurezza dei cittadini - tutti, anche i manifestanti - deve evitare l'abuso di potere e l'esercizio di una violenza di Stato che purtroppo abbiamo già visto altre volte andare vergognosamente in scena nelle nostre città.
E che abbiamo documentato anche ieri, portando il governo a prenderne atto.
Ma detto questo c'è tutto il resto, di cui non si parla. La coesione sociale di questo Paese ha del
miracoloso di fronte al processo di esclusione di un pezzo di società dal sistema occidentale di
garanzie in cui eravamo cresciuti per decenni.- La crisi che stiamo tutti vivendo ha accentuato fortemente la disuguaglianza sociale, che è diventata una cifra dell'epoca, esplosiva.
In un Paese irrisolto e malato come l'Italia questa disuguaglianza è diventata sproporzione.
E tuttavia il capitale sociale ha tenuto un insieme di relazioni, interdipendenze, fiducia e speranza, connessioni, che ha consentito al "sistema" di essere tale anche sotto l'urto della
crisi.
Aggiungiamo la frammentazione dei soggetti sociali e delle loro
culture di riferimento, l'egemonia culturale di un neoliberismo
storpiato all'italiana in una falsa ideologia che consentiva ogni
dismisura e scusava qualsiasi privilegio, giustificando e applau-
dendo qualunque abuso.
Quegli studenti e quegli operai che sono andati in piazza, disor-
ganizzati e divisi in mille rivoli, rappresentano l'irruzione in sce-
na di ciò che è stato escluso, nel senso vero e proprio del termine,
tagliato fuori. Un ceto, una fascia di popolazione, una generazio-
ne possono essere compressi fino all'irrilevanza sociale, dunque
politica, cioè fino all'invisibilità. E' quanto sta accadendo nelle
nostre società, sotto i nostri sguardi che non vedono. E tutto ciò,
com'è naturale, avviene attorno alla questione capitale di una
società democratica, che è la questione del lavoro.
La perdita del lavoro (e nello stesso modo il lavoro che non c'è)
è infatti qualcosa di più della perdita del reddito e della sicurez-
za economica. E' lo smarrimento dei legami sociali, dell'inter-
dipendenza dei ruoli, del riconoscimento reciproco attraverso
le funzioni e le obbligazioni volontarie che nascono dalle scelte
individuali e dalle necessità collettive. Ma è anche il venir me-
no dei diritti, fino al diritto democratico supremo: il diritto del-
la cittadinanza. Molto semplicemente, senza libertà materiale
non c'è libertà politica: il lavoro è partecipazione, emancipa-
zione, costruzione di sè e della propria libertà in relazione con
gli altri e con le libertà altrui. E' la trama in cui la realizzazio-
ne della nostra vita entra pubblicamente in rapporto con le vite
degli altri, in quel disegno che abbiamo chiamato società, cioè
lo stare insieme liberamente accettato in una composizione di
diritti e di doveri che tende al cosiddetto bene comune, o qual-
cosa di simile. - Se si rompe il nucleo di valori comunemente
riconosciuto nella civiltà occidentale del lavoro, salta tutto
questo. Per gli individui, va in crisi il rapporto stesso con la
democrazia, perchè quando io non sono più in grado di far
fronte ai doveri fondamentali davanti alla mia famiglia e ai
miei figli, alle loro necessità primarie, alle legittime aspira-
zioni (cioè alla libertà), la democrazia può diventare per me
un guscio vuoto, un insieme di formule che non trova senso
pratico e traduzione concreta nella vita di tutti i giorni.
Peggio, la democrazia diventa un sistema che si predica per
tutti e si declina per alcuni, il regime degli "inclusi", dei
protetti e dei garantiti, che tagia fuori il resto.
La grande novità della fase che viviamo sta proprio qui. Le
disuguaglianze sono state molto forti nei decenni che abbia-
mo alle spalle, in alcuni casi sono state odiose. Ma il sistema
politico.economico in sui siamo cresciuti e il suo orizzonte
culturale tendevano fortemente all'inclusione. I 60 anni del
dopoguerra hanno esteso in tutta l'Europa una sorta di eco-
nomia sociale di mercato che ha liberato la forza e le poten-
zialità del capitalismo regolandolo con il welfare state: pri-
ma forma strutturale di redistribuzione in basso del reddito
e sistema di garanzia per i più deboli, evitando che diventas-
sero esclusi. Qualcosa di ben lontano , com'è evidente, dalla
"democrazia compassionevole" e anche dalla "Big society"
che sostituiscono la benevolenza individuale e dei gruppi so-
ciali all'organizzazione dello Stato sociale, la carità ai diritti.
Com'è chiaro, la beneficenza non ha bisogno della democra-
zia: ma in democrazia , la solidarietà sociale ha bisosgno di
qualcosa di più della beneficenza.
Siamo al nucleo fondamentale della questione: i diritti.
Vedendo che sotto la spinta mai neutrale della crisi i soggetti
più deboli e più esposti della nostra società sono stati più vol-
te costretti a scegliere tra lavoro e diritti, abbiamo dovuto
prendere atto di una questione a cui non eravamo preparati:
i diritti nati dal lavoro sono dei diritti "nani", cioè subordi-
nati e condizionati, che possono venire revocati se la crisi lo
impone, dunque sono delle variabili dipendenti e non auto-
nome. Eppure fanno parte di quel contesto democratico ge-
nerale di cui tutti usufruiamo qualunque sia il nostro ruolo,
perchè è la civiltà materiale italiana nel suo progredire. E
tuttavia poichè sono frutto del negoziato (e dunque neces-
sariamente del rapporto di forza) e soprattutto perchè co-
stano, in quanto rispondono a delle spettanze, sono com-
primibili come non accadrebbe mai ad altri diritti. Dimo-
strando così che il lavoro può tornare ad essere semplice
prestazione, cioè merce, quando perde ogni valenza gene-
rale , simbolica, culturale, infine e soprattutto politica.
Questo accade perchè il neoliberismo, dopo aver genera-
to la crisi (vedi l'origine nelle politiche della Tatcher e
di Reagan), è riuscito paradossalmente a trasformarsi
nel suo presunto antidoto, cioè nell'unica legge di so-
pravvivenza delle democrazie esauste dell'Occidente, di-
ventando nei fatti la religione superstite, una moderna
ideologia. Non c'è oggi un confronto culturale in atto,
nei nostri Paesi. - E non c'è una cultura capace di
coniugare capitale, lavoro, responsabilità fuori dal pa-
radigma che ha fallito, ma donina ancora il campo.
Le destre non hanno elaborato cultura, declinando il
modello dominante in un 'laissez faire' smodato nel
campo privato, politico, istituzionale. La sinistra
scambia la modernità con il senso comune altrui, in
cui nuota controcorrente, da gregaria. L'establishment
lucra quel che può dalle rendite di posizione della fase,
incapace di guardare oltre. La tecnocrazia, impegnata
in una necessaria azione di risanamento e in una nuo-
va forma politica di rispetto delle istituzioni, soffre
tuttavia di una specie di "integralismo accademico"
che la porta a privilegiare i paradigmi scolastici ri-
spetto alla realtà, salvo prendere atto periodicamen-
te che il governo di un Paese moderno per fortuna
non è un convegno di Cernobbio.
A questo bisogna aggiungere la divaricazione crescente tra il vincolo
europeo e la sua legittimazione democratica. Strumenti decisivi e
cruciali della costruzione europea come la Bce (che dobbiamo rin-
graziare nella guerra allo spread) si sono trasformati davanti a noi
in veri e propri soggetti della governance comunitaria, senza essere
mai stati eletti. Leadership di fatto come quella di Angela Merkel,
contano più delle istituzioni dell'Unione, trojke e istituti che non
rispondono ai cittadini commissariano i governi, agenzie di rating
pesano più delle pubbliche opinioni. E' evidente che ci sarò biso-
gno di più Europa, per uscire dalla crisi: ma ci sarò soprattutto
bisogno di una governance democratica , con una rispondenza vi-
sibile e riscontrabile tra autorità, potestà, cittadinanza, rappresen-
tanza. - Per il momento, questo deficit di legittimazione produce
un deficit di politica, e tutto diventa meccanica: anche il rigore
non temperato dall'equità, dalla valutazione del consenso, dal
principio di giustizia sociale, è un paradigma obbligato e obbli-
gatorio, non una politica.
La mancanza di politica si avverte drammaticamente anche dall'altra
parte del mondo in cui viviamo. Gli esclusi, i senza lavoro, i ragazzi
senza prospettive, non hanno oggi una cultura politica che sappia
parlare a loro e per loro. Chi rappresenta il lavoro, quando c'è e de-
ve difendere i suoi diritti, quando non c'è e diventa un deficit di libertà?
Oggi non c'è rappresentanza. Con il rischio, come avvertono in molti
guardando alla Grecia, che la destra prenda in mano temi tipicamente
di sinistra e li agiti nella sua strumentalità antieuropea, in una rinasci-
ta modernissima e ambigua di una protesta nazional-sociale sotto altre
forme.
Ma se questo è il cuore del problema, non abbiamo finito. Perchè l'al-
leanza capitale-lavoro-welfare è stata un'identità naturale delle demo-
crazie rappresentative dell'Occidente, per tutti questi decenni. Se salta,
salta anche il tavolo di compensazione dei conflitti che ci ha tutelati
tutti, cioè quel vincolo d'interdipendenza che ha legato e tenuto insie-
me i vincenti e i perdenti del boom, delle crisi cicliche, , di internet,
della globalizzazione, quel nesso di destino comune che ha scusato e
reso fin qui tollerabili le disuguaglianze.
Continua...to be continued...