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(da la Repubblica - 18 agosto '21 / Commenti - di Renzo Guolo)
Il ritorno a Kabul rilancia il mito della Jihad
Che impatto avrà, nella galassia islamista, il ritorno dei talebani a Kabul? La catastrofe
occidentale in Afghanistan contiene in sè gli elementi di un nuovo mito di fondazione,
pur nutrito di elementi "classici": l'inevitabile sconfitta dei nemici di Dio e la "vittoria"
dei "credenti", l'irrilevanza del tempo lineare a favore del tempo circolare che, inesora-
bilmente, invera la volontà divina; l'etica della convinzione opposta a quella fondata su
mutevoli interessi; la disponibilità a mettere in gioco la vita per una causa asoluta che
agli "infedeli" non può che apparire insensata.
Simbolicamente, il vero ritorno è dato dalla riproposizione attivistica del Mito resa possibile dalla
trionfale vittoria . Del resto, anche il precedente mito fondativo, quello che ha dato inizio a tutto,
era stato forgiato nelle tempeste d'acciaio scatenatesi nel Paese dei Monti al tempo della jihad an-
tisovietica. Anche se allora erano stati i mujahidin di fuori, che nei campi di Bin Laden avevano
la loro palestra ideologica, a dargli forma e sostanza. L'ideologo di origine giordano-palestinese
Abdullah Azzam, che dalle colonne di Al Jihad, foglio del panislamismo jihadista, lo aveva reso
incandescente annunciando profeticamente: "Ora tocca ai sovietici, poi agli americani". A più di
trent'anni dal passaggio dell'Amu Darja in direzione Nord da parte dell'ultimo soldato con la
stella rossa, sono ancora i "fratelli" afghani a venire celebrati dagli islamisti di ogni latitudine,
da Hamas agli Shaabab somali, per aver costretto gli americani ad andarsene.
Al di là del mito politico, volano essenziale nella riproduzione di una ideologia totale come quel-
la islamista, cosa significa per i gruppi di quel magmatico universo, il ritorno al potere dei vecchi
compagni del Mullah Omar? Difficilmente un esempio da imitare e un modello da esportare:
troppo condizionata dal peso della tradizione locale l'esperienza afghana. Ma certo i movimenti
islamisti non possono che guardare con entusiasmo alla disfatta occidentale a Kabul. Perchè fo-
togrfa, plasticamente, che una fase storica, quella della "guerra al terrore" e della "esportazione
della democrazia", è finita. E, dunque, che il volto del Nemico non si paleserà, almeno per qual-
che tempo, con il pesante e ritmico rumore degli "stivali sul terreno" delle armate occidentali.
Semmai, con la guerra dell'aria, da remoto o meno. Un tipo di guerra pur sempre devastante ma
che, da sola, non ha mai piegato gruppi convinti ideologicamente e radicati tra la popolazione.
E' questa nuova consapevolezza strategica, articolata attorno al principio della minore deterren-
za ostile, a costituire, per la galassia islamista, il vero dividendo politico rivelato dalla bandiera
dell' Emirato sul palazzo presidenziale di Kabul. Più che lo stesso trionfo dei talebani. sin trop-
po legato a specifici aspetti, culturali, etnici, tribali, religiosi, che gli analisti occidentali, prigio-
nieri dei loro astratti schemi politologici, spesso faticano a comprendere.
E' questa presa d'atto che, al di là del loro orientamento islamonazionalista o panislamista, con-
sente ai diversi gruppi che si riconoscono negli stendardi con la sura aprente, di pensare di di-
sporre di un certo margine d'azione per perseguire, a scapito di un Occidente sfinito e senza
strategia unificante, i propri obiettivi. Per questo, al di là delle scelte che faranno o meno i ta-
lebani, la fuga occidentale di Kabul rischia di riverberare pesanti conseguenze anche in luoghi
assai lontani dalle desolate valli afghane.
Lucianone