Dedicherò di tanto in tanto qualche pagina di questo blog
ai grandi del calcio. Uno di questi è stato senz'altro Gigi
Meroni, che i più giovani non conosceranno bene, se non
da eventuali racconti dei genitori e dei nonni.
Questo articolo del giornalista Enrico Deaglio spiega bene
la vita calcistica ed extracalcistica di Meroni, e soprattut-
to il suo essere originale in quel periodo, anni '60, in cui re-
gole e tradizione ancora resistevano.
(Lucianone)
(da 'la Repubblica' - 9 ottobre 2012 - di E. Deaglio)
Il 15 ottobre di 45 anni fa moriva il calciatore artista e ribelle
del Torino, Gigi Meroni, passando così dal campo alla leggenda.
MERONI - Genio della lampada granata,
quando Gigi dribblava il mondo
Domenica 15 ottobre del 1967, la notizia cominciò a spargersi dopo
le 21. Aveva la forza di quei venti gelidi che precedono la tempesta.
Diceva che quel ragazzo portato al pronto soccorso dell'ospedale
Mauriziano era Gigi Meroni, l'ala destra del Torino. Investito da
un'auto, forse morto.
Ora era sul lettino del pronto soccorso e davanti, nel corridoio ar-
rivava la folla. Erano infermieri, medici, gli allievi, i portantini,
ma anche i malati in pigiama o con la vestaglia. Tanti salivano sa-
livano in piedi sulle due lunghe panche di metallo. Ma su così tan-
ta calca gravava una specie di silenzio, mentre gli occhi cercavano
di aprire quella porta e di sapere che cosa succedeva dentro. Poi la
porta si aprì e comparve un infermiere, mandato dall'interno come
portavoce. In piemontese pronunciò il verdetto: "Anche se vive, non
potrà più giocare al fùtbol". La folla cominciò a singhiozzare.
Erano in due, Meroni e il terzino Fabrizio Poletti, sulla mezzeria di
corso Re Umberto, tornavano indietro dal bar Zambon. Un'Appia
che aveva sorpassato nonostante la doppia riga, li aveva falciati;
Poletti di striscio, Meroni in pieno spaccandogli le gambe. Ora si
sentivano grida nel corridoio, sulla maledizione della squadra, sul-
la nuova Superga, sulla Malignità del Fato: "Cristo, poteva morire
Poletti!". Era arrivato Nestor Combin, il centravanti argentino con
la faccia da indio, e dovevano tenerlo in tre perchè cercava di ucci-
dersi a testate contro le colonne di granito dell'ingresso. Era arriva-
to Fabbri, Topolino, avvolto in un impermeabile che piangeva da solo.
ormai c'erano centinaia di persone , quando la porta si aprì di nuovo,
uscì il medico che, semplicemente, scosse la testa. - Lasciò la porta
socchiusa e dentro alcuni riuscirono a vedere per un attimo Gigi Me-
roni morto, la barba e i baffi neri come un Cristo messicano, con un
grande fazzoletto bianco che gli reggeva il mento. Colpito da dietro,
i due femori si erano frantumati ed erano esplosi.
Luigi Meroni, nato a Como nel 1943, ala destra del Torino, era alto
appena 1,72, aveva il fisico di un pulcino, e giocava con i calzettoni
abbassati alla Sivori, cosicchè quando usciva dal campo si poteva
vedere tutto il sangue sulle gambe, accumulato in 90 minuti di bot-
te; entusiasmava e inteneriva per l'arte, il talento , la fragilità e
una certa tristezza negli occhi. Si beveva come ridere dei lungagnoni
come Facchetti o Schnellinger, aveva le traiettorie impossibili, l'apo-
teosi nello spazio stretto, le girate repentine, il magnetismo tra piede
e pallone. Era un"capellone", un ribelle naturale e un artista.
Gli dicevano "Taglati i capelli, Meroni!", ma lo dovettero convocare
ugualmente in Nazionale tanto era bravo (e se lo avessero messo in
campo dopo l'infortunio a Bulgarelli non avremmo avuto l'umiliazione
della Corea).
Dipingeva quadri, si era fatto restaurare una Balilla, portò una volta
per Torino una gallina al guinzaglio, un'altra volta passeggiò scalzo:
si disegnava lui stesso i suoi vestiti - certi gessati da gangster, cami-
cie e cravatte dal collo spropositato. Lo chiamavano in tanti modi:
"zingaro", "Calimero", "hidalgo", "beat", "farfalla", ma il titolo
più bello era "il quinto dei Beatles", che condivideva con George
Best del Manchester United.
Gigi Meroni non cercò mai la celebrità, ma gli capitò di essere un
simbolo in un'Italia di cambiamento. Era cresciuto in un oratorio
di Como, e si trovò spaesato quando lo vendettero al Genoa. I tifo-
si lo amarono talmente che ci furono "disordini", quando Meroni
venne comprato dal Torino. Si era innamorato di una ragazza del
luna park, si chiamava Cristiana e andarono a vivere insieme, no-
nostante lei avesse dovuto subire un matrimonio combinato. Non
protestava mai, Meroni: ma, per esempio, rifiutava di tagliarsi i
capelli. Non parlava di politica , ma divenne un simbolo della li-
bertà. Quella sua barba lunga, poi, lo accomunava ai ribelli.
A Torino - per invidia e cattiveria - l'avvocato Agnelli arrivò ad offrire 750 milioni alla squadra concorrente, pur di vederlo gio-
care con la maglia della Juventus. Torino era ancora una città
calma, allora, ma in migliaia minacciarono di scatenare "di-
sordini", se questo scandalo si fosse avverato. Persino i sinda-
cati, che allora erano poco e niente, si dissero scandalizzati.
E così, solo per paura della piazza, Meroni era rimasto granata.
La settimana dopo la sua morte, si giocava il derby. Si capì da
che parte stavano, rispettivamente, il Bene e il Male. Poletti scese
in campo zoppo, Nestor Combin, l'indio, con 39 di febbre, segnò
3 gol frutto di rabbia pura. Il quattro a zero lo siglò Carelli, un
ragazzo, ma tutti capirono che il gol non lo aveva fatto lui, ma
la maglia numero sette che indossava.
Lucianone