28 aprile '18 - sabato 28th April / Saturday visione post - 38 (da la Repubblica - 28 febbraio '18 - Stefano Bartezzaghi) Le elezioni spiegate da Walter Benjamin Non si diventa politici di successo perchè si sono vinte le elezioni: si vincono -le elezioni perchè si è politici di successo. L'inversione del senso comune non è la trovata di qual- che spin-doctor odierno e non è contenuta in un manuale di self-help dei nostri tempi, tempi così votati a una cupa furbizia. E' la prima delle tredici tesi che il filosofo Walter Benjamin racchiuse in poche pagine scritte (a proposito di cupezza) nel 1928 e intitola- ta: La via del successo. Dagli esempi che porta, si capisce che aveva in mente soprat- tutto il successo letterario. Ma della società di massa, allora nascente, aveva capito qualcosa che nemmeno novant'anni dopo si può dare per scontato. Pensiamo alla po- litica italiana: se "il successo" è la popolarità e il "risultato" è la vittoria elettorale, il principio di Benjamin risulta meno paradossale. Berlusconi ha cominciato a vincere le sue prime elezioni presentandosi come "vincente", parola che dagli anni Ottanta è di- ventata più importante come sostantivo che come aggettivo: il vincente non è più colui che ha vinto, ma colui che è destinato a vincere. Benjamin lo sapeva già e, coerente- mente con questo principio, le sue "tesi" non sono polemologiche: non parlano di ave- re successo sugli altri ma delle condizioni individuali, e quasi spirituali, per "compren- dere la lingua nella quale la fortuna ci rivolge la parola". Non conosceva Berlusconi e si può presumere che Berlusconi non conosca Benjamin, ma l'indomito "campaigner" di Forza Italia sembra essere sospinto da intuizioni molto simili. Il suo impiego eletto- rale dell'appellativo di "presidente" prescinde dall'impossibilità persino di essere can- didato ma è utile a confermare un'immagine, perspicua e non ambigua: "La massa di strugge qualunque successo non appena questo le appaia oscuro, senza un suo valo- re istruttivo, esemplare". Viene da pensare ai nostri simboli elettorali di un tempo: la croce, la falce e il martello, il sole nascente, persino la fiamma. Come una decorazione per un generale, o per un finanziere, "il suo palazzo" (su cui oggi campeggia l'insegna Trump Building), così l'aura di "presidente" per il prescindente Berlusconi: queste so- no immagini univoche e, avverte Benjamin, non hanno nulla a che fare con la "traspa- renza", che oggi si predica come valore culturale. Si pensa al Movimento5Stelle, e alla ragione apparentemente oscura per cui la mancanza totale di curriculum dei suoi candidati non pare poterne frenare l'ascesa, quando Benja- min avverte che il successo dipende meno dalla saggezza e dalla preparazione che dalle doti di improvvisazione e che la sua ricerca ha meno a che fare con la volontà che con il gioco d'azzardo. Il candidato annulla la sua personalità come il giocatore si lascia rappre- sentare dalla fiche che mette sul tavolo verde. Democrazia interna dei partiti, articolazio- ni di punti programmatici, coalizioni polifoniche? Benjamin sembra anche criticare il pa- sticcio pseudo-pèroporzionale della legge elettorale in vigore quando stabilisce, crudel- mente, che il pubblico ha "fame di univocità": "Un centro, un capo, una parola d'ordine". Forse queste annotazioni di quasi un secolo fa possono aiutare a capire il punto in cui si è esaurito il "momentum" di Matteo Renzi, fra la rottamazione degli esordi, l'accantona- mento dell'articolo 18 e la mancata abolizione del Senato. Immagini negative, di cancella- zione, da cui non ne è sortita, a contrasto, una positiva: una formula in cui identificarsi, un'immagine delineata e univoca a cui votarsi, e quindi per cui votare. Bene fanno i po- litici che non riservano le proprie energie alle occasioni maggiori. "Molto è innato, ma molto viene dal training" e quindi occorre esercitare il proprio carisma a ogni momento, affrontare anche le discussioni minori, non apparire sempre con gli occhi affissi alla me- ta ed essere amabili, soprattutto con i sottoposti. Stare in mezzo al proprio pubblico per amabilmente padroneggiare "la lingua del comando" che, assieme alla "formula della fortuna" è l'Apriti Sesamo del successo. Sia ben chiaro che, prosegue Benjamin con di- vertente disinvoltura, "imbrogliare è sempre possibile", ma solo per chi non si senta un imbroglione. Fa esattamente l'esempio del "cavaliere d'industria", il cui nome, le cui proprietà e pertinenze emanano una luce gradevole: quella della "buona fede", che non illumina invece il "povero diavolo". Leggere oggi queste tesi, visionarie e quasi misteriche, costituisce una lezione durissi- ma per ogni idea che si vorrebbe "razionale" della politica. Pensare alla posterità è va- no, il successo ha il presente come unico orizzonte. Pensare che esista qualcosa co- me una "giustizia" nella gloria è addirittura "farisaico" ed è "uno dei maggiori osta- coli a qualunque riuscita": il successo arride a chi ne sa gioire indipendentemente dal merito. Un principio tanto beffardo dovrebbe peraltro indurci a interpretare corret- tamente l'ingannevole mito della "meritocrazia": la si vede come il potere ottenuto con il merito, ma in realtà è il merito che si ottiene con il potere. La "gloria", che è la dimensione assoluta del successo, non è infatti un "sovrappiù", come fu in passato: "in un'epoca in cui qualunque misera scribacchiatura viene diffusa in centomila esemplari" (e allora non c'erano i social network) la gloria è necessaria, come una condizione di esistenza. Chi non ne ha non esiste. Giustizia, competenza, lungimi- ranza, trasparenza, verità, cultura: si stenta a credere che a farne strame sia stato un filosofo che (sia pure a modo suo) era comunista e scriveva in un'epoca politica che incubava totalitarismi e stermini. Ma di fronte al "capriccio del gioco stesso del mondo" la dimensione etica a cui quei valori si richiamano ha l'efficacia pre- dittiva e prescrittiva di un oroscopo.