27 giugno '13 - giovedì 27th June / Thursday visione post - 6
L'Italia di Prandelli si gioca la semifinale
con la Spagna e il Brasile aspetta di
vedere la vincente.
Ma intanto la difesa azzurra è in crisi e il
tecnico bresciano cerca di sistemarla.
Otto gol subiti in tre partite e scatta l'allarme. Crolla il secolare
caposaldo della scuola calcistica italiana.
Buffon, il portiere: "Nostre le gare più divertenti, dal '78 non
c'era una nazionale così bella. Ma la difesa si deve fare in 11"
Bonucci, difensore centrale: Può darsi che d'ora in poi dovremo
abituarci ai 4-3, anzichè agli 1-0. La mentalità del nostro calcio
sta cambiando"
IL RIGORE CON IL MESSICO
Barzagli è il primo ad avere un'incertezza. Contro il Messico perde palla
e commette fallo su Dos Santos: rigore poi trasformato da Hernandez.
NE PRENDIAMO TRE DAL GIAPPONE
Il giappone fa tremare gli azzurri. Doppio vantaggio con un rigore di
Honda e Kagawa, poi il 3-3 di Okazaki e ancora una traversa di Ka-
gawa nel finale.
IL BRASILE E' IL BRASILE (alla fine la difesa si scioglie)
Il Brasile mette a dura prova la difesa di Prandelli. Al vantaggio di
Dante segue il raddoppio di Fred, la splendida punizione di Neymar
e ancora una rete eccellente di Fred.
Lucianone
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giovedì 27 giugno 2013
L'opinione del giovedì - Le fasi cicliche della storia / ma si ripetono sempre?
27 giugno '13 - giovedì 27th June / Thursday
L'opinione
(di Lucianone)
Le fasi cicliche non sono più possibili?
Sembra proprio di no.
Ma spero di sbagliarmi.
Continua...
to be continued...
L'opinione
(di Lucianone)
Le fasi cicliche non sono più possibili?
Sembra proprio di no.
Ma spero di sbagliarmi.
Continua...
to be continued...
Società / calcio - Il mitico Brasile è un pò perso
27 giugno '13 - giovedì 27th June / Thursday visioni post - 8
In Brasile il calcio è in ostaggio: persi
coriandoli e sacralità. Ma il benessere
ha un prezzo.
(da La Gazzetta dello Sport - 22/06/2013
rubrica 'IlCommento' - Alessandro De Calò)
Il futebol arte,
paradiso perduto nel nuovo Brasile
La parola Brasile è così evocativa, lo stereotipo è talmente radicato in migliaia di
teste che, quando si parla di calcio, tanti continuano a credere che la Selecao sia
la nazionale più forte del mondo. L'effetto è simile a quello della luce emessa dal-
le stelle che hanno cessato di esistere: dovendo percorrere migliaia di chilometri,
la luce ci mette una vita ad arrivare ai nostri occhi e quando arriva finisce che la
vediamo anche se la stella non c'è più. Svaporata. Nel ranking Fifa - nonostante
Neymar - i nipotini di Pelè sono rotolati dalla vetta, giù, fino al ventiduesimo po-
sto... Stanno là, sotto al Ghana e sopra al Mali. Un livello africano, ormai mar-
ginale.
ASCESA DELLA SPAGNA
Per quante sciocchezze possa contenere - come ogni verdetto statistico - la classi-
fica della Federcalcio mondiale racconta una aprte di verità. E una cosa resta
evidente: c'è stato un cambio di testimone. Inizialmente timido, poi sempre più
solido. La Spagna di questi anni è diventata quello che il Brasile ha saputo
essere nella seconda metà del secolo scorso. Non solo la squadra più forte, in
grado di battere tutti sempre e comunque - in modo inesorabile - ma anche
quella che riempie gli occhi e il cuore, con il suo gioco coraggioso, totale, of-
fensivo. Il calcio risollevato a livello di arte è una cosa rara, un modello
da inseguire, perchè è capace di tenere assieme la bellezza dello spettacolo
con la necessità della vittoria.
Grazie alla spinta propulsiva del Barcellona, la Spagna è entrata nel circolo
virtuoso che esalta le qualità individuali di una generazione straordinaria
con i perfetti meccanismi collettivi collaudati a livello di club e felicemente
traslocati nella Seleccion.
DECLINO DEL BRASILE
Probabilmente il vecchio Zico aveva ragione a sostenere che la sconfitta del
suo Brasile contro l'Italia , nel Mondiale 1982, ha cambiato qualcosa nella
storia del calcio segnando il capolinea di un modello di gioco della Selecao,
una nuova fine dell'innocenza dopo il terribile Maracanazo del 1950. Da al-
lora - tolta la felice parentesi con Zagallo di fine anni Novanta - la Cana-
rinha non si è più ripresa. Ha vinto due Mondiali, nel 1994 e nel 2002, è ve-
ro, ma li ha vinti un pò per caso, senza dominare, senza essere la squadra
favorita. Niente di epocale.
L'europeizzazione del gioco brasiliano , la normalizzazione imposta dalla
prevalenza della forza fisica e della tattica sulla qualità tecnica, ha avuto
tra le sue conseguenze una minore produzione di talenti. Per ragioni di-
verse, sotto lo stesso comune denominatore, l'Europa ha consumato in
fretta il genio dei Ronaldo, Kakà, Ronaldinho, Adriano, Pato. E para-
dossalmente, nonostante il boom economico abbia permesso di riportare
in Brasile alcuni campioni emigrati in Europa, il nuovo benessere nonù
ha tolto i tifosi dal disincanto. Nel Brasilerao si gioca un calcio tignoso,
poco spettacolare e gli stadi restano vuoti (13 mila presenze a partita).
La Selecao è stata riaffidata al vecchio Scolari, buon gestore di uomini
ma interprete di un calcio prudente, solido, vetero europeo e poco crea-
tivo.
Nel 1950 la sconfitta con l'Uruguay si era trasformata in un dramma
per il Brasile, inteso come paese. Adesso i ruoli sono ribaltati. Anzichè
farsi usare dal futebol - per disperarsi o festeggiare - la gente gioca d'an-
ticipo e usa il calcio per protestare davanti al mondo. Sembra un paradi-
so perduto, è il prezzo del benessere che, faticosamente, avanza.
Lucianone
In Brasile il calcio è in ostaggio: persi
coriandoli e sacralità. Ma il benessere
ha un prezzo.
(da La Gazzetta dello Sport - 22/06/2013
rubrica 'IlCommento' - Alessandro De Calò)
Il futebol arte,
paradiso perduto nel nuovo Brasile
La parola Brasile è così evocativa, lo stereotipo è talmente radicato in migliaia di
teste che, quando si parla di calcio, tanti continuano a credere che la Selecao sia
la nazionale più forte del mondo. L'effetto è simile a quello della luce emessa dal-
le stelle che hanno cessato di esistere: dovendo percorrere migliaia di chilometri,
la luce ci mette una vita ad arrivare ai nostri occhi e quando arriva finisce che la
vediamo anche se la stella non c'è più. Svaporata. Nel ranking Fifa - nonostante
Neymar - i nipotini di Pelè sono rotolati dalla vetta, giù, fino al ventiduesimo po-
sto... Stanno là, sotto al Ghana e sopra al Mali. Un livello africano, ormai mar-
ginale.
ASCESA DELLA SPAGNA
Per quante sciocchezze possa contenere - come ogni verdetto statistico - la classi-
fica della Federcalcio mondiale racconta una aprte di verità. E una cosa resta
evidente: c'è stato un cambio di testimone. Inizialmente timido, poi sempre più
solido. La Spagna di questi anni è diventata quello che il Brasile ha saputo
essere nella seconda metà del secolo scorso. Non solo la squadra più forte, in
grado di battere tutti sempre e comunque - in modo inesorabile - ma anche
quella che riempie gli occhi e il cuore, con il suo gioco coraggioso, totale, of-
fensivo. Il calcio risollevato a livello di arte è una cosa rara, un modello
da inseguire, perchè è capace di tenere assieme la bellezza dello spettacolo
con la necessità della vittoria.
Grazie alla spinta propulsiva del Barcellona, la Spagna è entrata nel circolo
virtuoso che esalta le qualità individuali di una generazione straordinaria
con i perfetti meccanismi collettivi collaudati a livello di club e felicemente
traslocati nella Seleccion.
DECLINO DEL BRASILE
Probabilmente il vecchio Zico aveva ragione a sostenere che la sconfitta del
suo Brasile contro l'Italia , nel Mondiale 1982, ha cambiato qualcosa nella
storia del calcio segnando il capolinea di un modello di gioco della Selecao,
una nuova fine dell'innocenza dopo il terribile Maracanazo del 1950. Da al-
lora - tolta la felice parentesi con Zagallo di fine anni Novanta - la Cana-
rinha non si è più ripresa. Ha vinto due Mondiali, nel 1994 e nel 2002, è ve-
ro, ma li ha vinti un pò per caso, senza dominare, senza essere la squadra
favorita. Niente di epocale.
L'europeizzazione del gioco brasiliano , la normalizzazione imposta dalla
prevalenza della forza fisica e della tattica sulla qualità tecnica, ha avuto
tra le sue conseguenze una minore produzione di talenti. Per ragioni di-
verse, sotto lo stesso comune denominatore, l'Europa ha consumato in
fretta il genio dei Ronaldo, Kakà, Ronaldinho, Adriano, Pato. E para-
dossalmente, nonostante il boom economico abbia permesso di riportare
in Brasile alcuni campioni emigrati in Europa, il nuovo benessere nonù
ha tolto i tifosi dal disincanto. Nel Brasilerao si gioca un calcio tignoso,
poco spettacolare e gli stadi restano vuoti (13 mila presenze a partita).
La Selecao è stata riaffidata al vecchio Scolari, buon gestore di uomini
ma interprete di un calcio prudente, solido, vetero europeo e poco crea-
tivo.
Nel 1950 la sconfitta con l'Uruguay si era trasformata in un dramma
per il Brasile, inteso come paese. Adesso i ruoli sono ribaltati. Anzichè
farsi usare dal futebol - per disperarsi o festeggiare - la gente gioca d'an-
ticipo e usa il calcio per protestare davanti al mondo. Sembra un paradi-
so perduto, è il prezzo del benessere che, faticosamente, avanza.
Lucianone
Libri - "Città aperta" di Teju Cole / romanzo atipico
27 giugno '13 - giovedì 27th June / Thursday visioni post - 10
Un romanzo atipico per raccontare, camminando,
pensieri e incontri tra due mondi: l'esordio del
nigeriano-americano Teju Cole
(da 'D laRepubblica' - 25 maggio 2013 / now libri - di Franco Marcoaldi)
Bisogna smettere di camminare a capo chino. Bisogna guardare in faccia il mondo,
con occhi vigili e ricettivi, e allora sì che la nostra traversata esistenziale saprà co-
gliere tutta la meraviglia e tutto lo strazio che ci circonda. Questo è l'assunto che
il nigeriano-americano Teju Cole fa proprio, accompagnandoci nella sua lunga
peregrinazione per le strade di New York.
"Città aperta" è il suo primo, atipico romanzo, che ha fatto molto rumore negli Usa, aggiudicandosi tra gli altri il premio PEN/Hemingway e il New York City Book Award
for Fiction. Dico romanzo atipico, perchè non siamo in presenza di un intreccio fanta-
stico e canonico, con inizio, svolgimento e conclusione, ma di fronte al rapsodico reso-
conto della vita quotidiana di un uomo. Julius, giovane psichiatra di colore, tedesco-
nigeriano - che racconta tutto quanto gli accade o gli passa per la testa. Julius ci rende
partecipi della sua ininterrotta 'flanerie', dove si succedono i più diversi incontri, con
luoghi e persone. Incontri che lo inducono a rivisitare il proprio passato e lo spingomo
verso altri luoghi (memorabili le pagine su Bruxelles, "una città in attesa, o sotto ve-
tro", dove si reca in cerca della nonna materna).
Julius si è appena lasciato con la fidanzata Nadège e ora conduce una vita solitaria.
Le sue giornate trascorrono tra l'ospedale ("tenevo sempre a mente il più antico dei
principi medici: non fare danni"), le sale da concerto (ascoltando l'adorato Mahler
alla Carnegie Hall nota con disappunto, e per l'ennesima volta, d'essere tra i pochis-
simi spettatori di colore), le visite a un vecchio e amato professore ormai prossimo
alla morte.
Ma soprattutto Julius cammina, cammina (anche per questo tra le sue ascendenze let-
terarie, s'è fatto non a torto il nome di Sebald). E camminando incontra l'umanità più
varia. Nelle tavole calde, sulle piazze, nei musei, sui treni della metropolitana.
Nel cielo, frattanto, passano gli uccelli migratori. E lui se ne sta a guardare quelle
formazioni di oche e rondoni "come per trarre auspici , sperando di assistere al mi-
racolo dell'immigrazione in natura". D'altronde anche lui è un migrante. E a quel
genere di storie presta particolare attenzione, inanellandole nel tentativo di trovare
un qualche senso alla propria vicenda personale.
"Viviamo la vita come un continuum, e solo quando trascorre, quando diventa passato,
vediamo che è discontinua". Ma anche il passato più cristallizzato può irrompere nel
presente, sconquassandolo. Come accade all'improvviso grazie al casuale incontro in
un negozio di Union Square "con qualcuno a lungo dimenticato, una parte di me
stesso che avevo relegato all'infanzia e all'Africa". Quella di Moji, sorella di un vec-
chio compagno di studi, è una vera apparizione, che imporrà a Julius di esplorare,
dolorosamente, in se stesso.
(Teju Cole, 'Città aperta', Einaudi, euro 17,50 - traduzione di Gioia Guerzoni,
uscito il 28 maggio 2013)
Lucianone
Un romanzo atipico per raccontare, camminando,
pensieri e incontri tra due mondi: l'esordio del
nigeriano-americano Teju Cole
(da 'D laRepubblica' - 25 maggio 2013 / now libri - di Franco Marcoaldi)
Bisogna smettere di camminare a capo chino. Bisogna guardare in faccia il mondo,
con occhi vigili e ricettivi, e allora sì che la nostra traversata esistenziale saprà co-
gliere tutta la meraviglia e tutto lo strazio che ci circonda. Questo è l'assunto che
il nigeriano-americano Teju Cole fa proprio, accompagnandoci nella sua lunga
peregrinazione per le strade di New York.
"Città aperta" è il suo primo, atipico romanzo, che ha fatto molto rumore negli Usa, aggiudicandosi tra gli altri il premio PEN/Hemingway e il New York City Book Award
for Fiction. Dico romanzo atipico, perchè non siamo in presenza di un intreccio fanta-
stico e canonico, con inizio, svolgimento e conclusione, ma di fronte al rapsodico reso-
conto della vita quotidiana di un uomo. Julius, giovane psichiatra di colore, tedesco-
nigeriano - che racconta tutto quanto gli accade o gli passa per la testa. Julius ci rende
partecipi della sua ininterrotta 'flanerie', dove si succedono i più diversi incontri, con
luoghi e persone. Incontri che lo inducono a rivisitare il proprio passato e lo spingomo
verso altri luoghi (memorabili le pagine su Bruxelles, "una città in attesa, o sotto ve-
tro", dove si reca in cerca della nonna materna).
Julius si è appena lasciato con la fidanzata Nadège e ora conduce una vita solitaria.
Le sue giornate trascorrono tra l'ospedale ("tenevo sempre a mente il più antico dei
principi medici: non fare danni"), le sale da concerto (ascoltando l'adorato Mahler
alla Carnegie Hall nota con disappunto, e per l'ennesima volta, d'essere tra i pochis-
simi spettatori di colore), le visite a un vecchio e amato professore ormai prossimo
alla morte.
Ma soprattutto Julius cammina, cammina (anche per questo tra le sue ascendenze let-
terarie, s'è fatto non a torto il nome di Sebald). E camminando incontra l'umanità più
varia. Nelle tavole calde, sulle piazze, nei musei, sui treni della metropolitana.
Nel cielo, frattanto, passano gli uccelli migratori. E lui se ne sta a guardare quelle
formazioni di oche e rondoni "come per trarre auspici , sperando di assistere al mi-
racolo dell'immigrazione in natura". D'altronde anche lui è un migrante. E a quel
genere di storie presta particolare attenzione, inanellandole nel tentativo di trovare
un qualche senso alla propria vicenda personale.
"Viviamo la vita come un continuum, e solo quando trascorre, quando diventa passato,
vediamo che è discontinua". Ma anche il passato più cristallizzato può irrompere nel
presente, sconquassandolo. Come accade all'improvviso grazie al casuale incontro in
un negozio di Union Square "con qualcuno a lungo dimenticato, una parte di me
stesso che avevo relegato all'infanzia e all'Africa". Quella di Moji, sorella di un vec-
chio compagno di studi, è una vera apparizione, che imporrà a Julius di esplorare,
dolorosamente, in se stesso.
(Teju Cole, 'Città aperta', Einaudi, euro 17,50 - traduzione di Gioia Guerzoni,
uscito il 28 maggio 2013)
Lucianone
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