E' scomparso, nel giorno di Natale, Giorgio Bocca (91 anni)
Grande giornalista e cronista dell'Italia - Le esequie nella
basilica di San Vittore al Corpo a Milano.
Bocca ha raccontato con rigore l'Italia dal dopoguerra ad oggi -
Roberto Saviano: "Addio, partigiano Giorgio" -
La figlia Nicoletta: "Spero che qualcuno prenda il suo posto".
Giorgio Bocca era nato a Cuneo, il 18 agosto 1920
- Ricordando Giorgio Bocca -
( Eugenio Scalfari su 'la Repubblica.it' )
LA MEMORIA
Caro amico Giorgio Bocca
una vita insieme alla tua fantasia
È STATA l'ultima volta che l'ho visto, era il 6 dicembre scorso, le 11 del mattino e lui stava seduto alla sua scrivania, pallidissimo, il volto scavato con le ossa della fronte, degli zigomi e delle mascelle coperte dalla pelle e gli occhi fissi davanti a sé che guardavano il vuoto. Gli chiesi se avesse dolore in qualche parte del corpo, rispose "No, nessun dolore". "Questo è un buon segno - gli dissi mentendo - ma come ti senti?", mi guardava senza alcuna espressione, poi la bocca accennò un sorriso. La risposta fu "non ci sono". La moglie Silvia si era seduta accanto a lui, gli carezzò lievemente la guancia e quasi per cambiar discorso disse: "Per pranzo gli ho preparato la luganiga, gli piacciono quelle salsicce cotte nel vino". "Ma le può mangiare?", "Le assaggia".
Gli domandai se leggeva i giornali. Rispose: "Non c'è niente da leggere". Insistei: "La politica ti interessa sempre?". Rispose: "Non c'è politica". Poi fu lui a chiedermi: "Tu come fai a scrivere ancora?". Risposi che il mestiere, se lo hai imparato fin da ragazzo, è lui che ti porta sulle spalle e tu vai avanti senza fatica. Lui commentò "per me il mestiere non c'è più, se n'è andato prima di me ma l'attesa ormai sarà breve". Poi si voltò verso Silvia e lei mi disse che era stanco. Mi alzai, andai verso di lui e ci baciammo. "Tornerò presto".
"Non mi troverai, non venire, sarebbe inutile".
Sono uscito con una grande tristezza in cuore. Ora l'amica del destino
è arrivata all'appuntamento e ha portato via la sua spoglia, ma l'anima
se n'era già andata e lui me l'aveva detto: non ci sono più. Per quanto
mi riguarda continuerà a vivere finchè vivrò. La memoria serve anche
a questo: tiene vive le persone che ci sono state compagne di vita. di
pensiero, di progetti e con le quali abbiamo discusso, gioito, sperato.
Giorgio è stato un grande giornalista, un grande cronista e un grande scrittore. Non era un letterato ma uno scrittore sì, dei vezzi letterari non aveva bisogno, era la fantasia a muovergli la mano e la penna. Vedeva i fatti, i luoghi, i personaggi e li raccontava, ma la fantasia li associava ad altri personaggi, ad altri luoghi e ad altri fatti. Passava da un tempo ad un altro e da un luogo ad un altro luogo senza separarli neppure con un "a capo", neppure con un punto, al massimo una virgola. La fantasia fa di questi miracoli e lui, sotto la maschera del contadino e del provinciale, sentiva e raccontava l'avventura delle persone, poi all'improvviso alzava gli occhi verso il cielo e descriveva le stelle come intermezzo e poi tornava a raccontare la storia d'un bandito o d'un corruttore, d'un mondo dove i leoni avevano lasciato il posto alle volpi e alle faine.
Io gli ho voluto molto bene. Lui non so, era burbero nei modi e anche chiuso in sé quanto io ero aperto. "Tu vuoi sedurre la gente - mi diceva - e capisco che questo è il tuo mestiere". Un giorno mi disse che ero un cinico. Un altro giorno che la mia presenza gli dava sicurezza. Era insicuro e timido, Giorgio Bocca, ma puro come il diamante. A vederlo da fuori tutto avresti pensato fuorché fosse impastato di fantasia, che avesse un mondo fantastico dentro di sé e invece era proprio così e basta leggere le prime pagine del "Provinciale" - forse il più bello dei suoi libri - per capirlo.
Tra le mille inchieste, interviste, cronache di guerra e di dolorosa pace, ricordi di vita partigiana che Giorgio ha pubblicato in libri e giornali, dall'Europeo al Giorno, e poi su Repubblica, è difficile scegliere.
Da noi venne fin dal primo giorno della fondazione e c'è rimasto fino a ieri, è durato 36 anni questo sodalizio. È incredibile la sua scrittura. Per la professione che faccio ho letto migliaia di articoli e le firme di chi vi scriveva sono state tra le più pregiate. I confronti sarebbero impropri, ognuno aveva la sua cifra, il suo stile, ognuno la sua visione della vita e del Paese. Ma quello di Bocca è stato unico. Pensava, vedeva, raccontava, si indignava, si innamorava dei personaggi, li faceva rivivere e vivere sulla pagina.
Tra i tanti luoghi che ha visto il Sud è stato una passione. Aveva in testa racconti di banditi, liturgie di iniziazione alla mafia e alle "'ndrine", violenze, soprusi, corruzione, ma anche gli antichi insediamenti della Magna Grecia, Sibari, Crotone, Agrigento, Locri e Ulisse, il mare azzurro di Scilla e Cariddi, le coste ioniche, Pitagora, il ratto di Proserpina, gli aranceti, le spiagge a perdita d'occhio. E il cielo. Un cielo blu da Croce del Sud che invece era quello dell'Orsa Maggiore e delle costellazioni di questa parte del pianeta, le Pleiadi, Orione, Andromeda.
Quel cielo blu sopra di lui gli ispirava il ricordo di Omero e di Odisseo che naviga tra l'isola di Circe e quella di Calipso. Ma poi lasciava all'improvviso quel mondo di fantasia, s'arrampicava per i sentieri dell'Aspromonte e raccontava i mafiosi, le donne matriarcali, i pastori, la cosca di Mommo Piromalli e infine i bronzi di Riace, apollinei nelle loro posture guerriere.
Ho riletto, proprio dopo il nostro ultimo incontro di Milano, alcune delle sue inchieste tra le quali quelle che intitolammo "Aspra Calabria", scritta oltre vent'anni fa. L'inizio è sbalorditivo. È in Calabria e deve raccontare per i nostri lettori che cosa è l'Aspromonte, i suoi borghi arrampicati, le tane dove sono imprigionati per mesi e anni i rapiti. E invece comincia così: "Nel 1968 a Saigon, Vietnam, alloggiavo all'hotel Metropole, in una stanza liberty color avorio, solo il geco incollato sul muro mi ricordava che ero nel lontano sudest asiatico. Nella sala da pranzo camerieri in giacca bianca servivano "tournedos" alla Rossini e volendo lo chef ci faceva le "crepes" alla fiamma. Poi uscivo e a duecento metri passavo lungo la caserma dei rangers vietnamiti, con le porte e le finestre murate perché non si vedessero e non si sentissero i prigionieri vietcong chiusi nelle gabbie di bambù, corpi martoriati dalle torture sotto i pigiami neri".
Ma che cosa scrive? È matto? È andato a raccontare l'Aspromonte e descrive l'hotel Metropole e le gabbie dei vietcong. Ah, non conoscete Giorgio Bocca. Va a capo e scrive: "Oggi, 1992, sono in un hotel della Locride e posso vedere di qui l'Aspromonte" e continua "in questi boschi c'è un uomo, il giovane Celadon, che da due anni sta in una tana alta mezzo metro e quando lo fanno uscire deve star lì, sulla buca della tana, legato a una gamba con una catena come un maiale".
E da lettore ormai sei avvinto da quel racconto, ci sei entrato dentro fino al collo, ti sembra di leggere un romanzo di uomini d'avventura, guardie e ladri, corrotti e corruttori, un Hemingway, ma no, un Conrad che scrive sul cuore di tenebra. E invece stai leggendo il "reportage" d'un giornalista che s'è arrampicato fino a Platì, poi scenderà a Taurianova, a Gioia Tauro, poi risalirà di nuovo sulla montagna e intanto fruga nella memoria e rivede Saigon e una guerra spaventosa, ma quella guerra è finita e Saigon è ora una città moderna e ricca, ma qui questa guerra primitiva non finisce mai. Ieri leggevate Bocca, oggi leggete Saviano. Mafia, 'ndangheta, camorra sono sempre là da un secolo e mezzo. Solo che oggi da Platì e dagli altri borghi-rifugio gli ordini e gli affari arrivano a Milano, a Marsiglia, ad Amburgo, a Bogotà, a Tokyo, in Kosovo, in Montenegro, a Mosca. Si commercia la droga, si comprano i casinò di Las Vegas, fabbriche in Brianza, ristoranti a Roma, aree fabbricabili a Firenze e a Brescia. Il volume degli affari supera i 200 miliardi l'anno. Ma i capi vivono ancora nei tuguri sulla montagna o scontano il carcere duro e continuano a mandare ordini, a comandare, a governare il commercio insieme a tutte le mafie del mondo, mentre i figli e i nipoti parlano le lingue, sono seguiti da uno stuolo di avvocati e discutono di fidi e di prestiti con le banche e le fondazioni nei Caraibi, nel Liechtenstein, a Zurigo e a Miami.
Dopo due anni da quella sua inchiesta arrivò un altro tsunami, sembrava un intermezzo da cabaret, Berlusconi, Dell'Utri, Previti, il partito dell'amore, il contratto con gli italiani, le televisioni, le paillettes e le escort.
I Piromalli e i Macrì sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca "money money money", un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria "meno male che Silvio c'è". Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà e il mistero doloroso diventerà un mistero gaudioso. Così è stato e finalmente quella cricca ha fatto le valigie, cacciata dagli italiani di buona volontà ma anche da una tempesta che minaccia di travolgere un Paese impreparato ad affrontarla.Giorgio Bocca s'è battuto per tutti questi anni affinché l'Italia si rialzasse dal letamaio ed ha anche visto il finale di quella drammatica farsa. Poi se n'è andato anche lui che si considerava un anti-italiano perché detestava l'Italia che aveva sotto gli occhi.
Io ti ricorderò sempre, caro amico e compagno, tu la tua guerra partigiana non hai cessato mai di combatterla e ora hai il diritto di riposare in pace.
Gli domandai se leggeva i giornali. Rispose: "Non c'è niente da leggere". Insistei: "La politica ti interessa sempre?". Rispose: "Non c'è politica". Poi fu lui a chiedermi: "Tu come fai a scrivere ancora?". Risposi che il mestiere, se lo hai imparato fin da ragazzo, è lui che ti porta sulle spalle e tu vai avanti senza fatica. Lui commentò "per me il mestiere non c'è più, se n'è andato prima di me ma l'attesa ormai sarà breve". Poi si voltò verso Silvia e lei mi disse che era stanco. Mi alzai, andai verso di lui e ci baciammo. "Tornerò presto".
"Non mi troverai, non venire, sarebbe inutile".
Sono uscito con una grande tristezza in cuore. Ora l'amica del destino
è arrivata all'appuntamento e ha portato via la sua spoglia, ma l'anima
se n'era già andata e lui me l'aveva detto: non ci sono più. Per quanto
mi riguarda continuerà a vivere finchè vivrò. La memoria serve anche
a questo: tiene vive le persone che ci sono state compagne di vita. di
pensiero, di progetti e con le quali abbiamo discusso, gioito, sperato.
Giorgio è stato un grande giornalista, un grande cronista e un grande scrittore. Non era un letterato ma uno scrittore sì, dei vezzi letterari non aveva bisogno, era la fantasia a muovergli la mano e la penna. Vedeva i fatti, i luoghi, i personaggi e li raccontava, ma la fantasia li associava ad altri personaggi, ad altri luoghi e ad altri fatti. Passava da un tempo ad un altro e da un luogo ad un altro luogo senza separarli neppure con un "a capo", neppure con un punto, al massimo una virgola. La fantasia fa di questi miracoli e lui, sotto la maschera del contadino e del provinciale, sentiva e raccontava l'avventura delle persone, poi all'improvviso alzava gli occhi verso il cielo e descriveva le stelle come intermezzo e poi tornava a raccontare la storia d'un bandito o d'un corruttore, d'un mondo dove i leoni avevano lasciato il posto alle volpi e alle faine.
Io gli ho voluto molto bene. Lui non so, era burbero nei modi e anche chiuso in sé quanto io ero aperto. "Tu vuoi sedurre la gente - mi diceva - e capisco che questo è il tuo mestiere". Un giorno mi disse che ero un cinico. Un altro giorno che la mia presenza gli dava sicurezza. Era insicuro e timido, Giorgio Bocca, ma puro come il diamante. A vederlo da fuori tutto avresti pensato fuorché fosse impastato di fantasia, che avesse un mondo fantastico dentro di sé e invece era proprio così e basta leggere le prime pagine del "Provinciale" - forse il più bello dei suoi libri - per capirlo.
Tra le mille inchieste, interviste, cronache di guerra e di dolorosa pace, ricordi di vita partigiana che Giorgio ha pubblicato in libri e giornali, dall'Europeo al Giorno, e poi su Repubblica, è difficile scegliere.
Da noi venne fin dal primo giorno della fondazione e c'è rimasto fino a ieri, è durato 36 anni questo sodalizio. È incredibile la sua scrittura. Per la professione che faccio ho letto migliaia di articoli e le firme di chi vi scriveva sono state tra le più pregiate. I confronti sarebbero impropri, ognuno aveva la sua cifra, il suo stile, ognuno la sua visione della vita e del Paese. Ma quello di Bocca è stato unico. Pensava, vedeva, raccontava, si indignava, si innamorava dei personaggi, li faceva rivivere e vivere sulla pagina.
Tra i tanti luoghi che ha visto il Sud è stato una passione. Aveva in testa racconti di banditi, liturgie di iniziazione alla mafia e alle "'ndrine", violenze, soprusi, corruzione, ma anche gli antichi insediamenti della Magna Grecia, Sibari, Crotone, Agrigento, Locri e Ulisse, il mare azzurro di Scilla e Cariddi, le coste ioniche, Pitagora, il ratto di Proserpina, gli aranceti, le spiagge a perdita d'occhio. E il cielo. Un cielo blu da Croce del Sud che invece era quello dell'Orsa Maggiore e delle costellazioni di questa parte del pianeta, le Pleiadi, Orione, Andromeda.
Quel cielo blu sopra di lui gli ispirava il ricordo di Omero e di Odisseo che naviga tra l'isola di Circe e quella di Calipso. Ma poi lasciava all'improvviso quel mondo di fantasia, s'arrampicava per i sentieri dell'Aspromonte e raccontava i mafiosi, le donne matriarcali, i pastori, la cosca di Mommo Piromalli e infine i bronzi di Riace, apollinei nelle loro posture guerriere.
Ho riletto, proprio dopo il nostro ultimo incontro di Milano, alcune delle sue inchieste tra le quali quelle che intitolammo "Aspra Calabria", scritta oltre vent'anni fa. L'inizio è sbalorditivo. È in Calabria e deve raccontare per i nostri lettori che cosa è l'Aspromonte, i suoi borghi arrampicati, le tane dove sono imprigionati per mesi e anni i rapiti. E invece comincia così: "Nel 1968 a Saigon, Vietnam, alloggiavo all'hotel Metropole, in una stanza liberty color avorio, solo il geco incollato sul muro mi ricordava che ero nel lontano sudest asiatico. Nella sala da pranzo camerieri in giacca bianca servivano "tournedos" alla Rossini e volendo lo chef ci faceva le "crepes" alla fiamma. Poi uscivo e a duecento metri passavo lungo la caserma dei rangers vietnamiti, con le porte e le finestre murate perché non si vedessero e non si sentissero i prigionieri vietcong chiusi nelle gabbie di bambù, corpi martoriati dalle torture sotto i pigiami neri".
Ma che cosa scrive? È matto? È andato a raccontare l'Aspromonte e descrive l'hotel Metropole e le gabbie dei vietcong. Ah, non conoscete Giorgio Bocca. Va a capo e scrive: "Oggi, 1992, sono in un hotel della Locride e posso vedere di qui l'Aspromonte" e continua "in questi boschi c'è un uomo, il giovane Celadon, che da due anni sta in una tana alta mezzo metro e quando lo fanno uscire deve star lì, sulla buca della tana, legato a una gamba con una catena come un maiale".
E da lettore ormai sei avvinto da quel racconto, ci sei entrato dentro fino al collo, ti sembra di leggere un romanzo di uomini d'avventura, guardie e ladri, corrotti e corruttori, un Hemingway, ma no, un Conrad che scrive sul cuore di tenebra. E invece stai leggendo il "reportage" d'un giornalista che s'è arrampicato fino a Platì, poi scenderà a Taurianova, a Gioia Tauro, poi risalirà di nuovo sulla montagna e intanto fruga nella memoria e rivede Saigon e una guerra spaventosa, ma quella guerra è finita e Saigon è ora una città moderna e ricca, ma qui questa guerra primitiva non finisce mai. Ieri leggevate Bocca, oggi leggete Saviano. Mafia, 'ndangheta, camorra sono sempre là da un secolo e mezzo. Solo che oggi da Platì e dagli altri borghi-rifugio gli ordini e gli affari arrivano a Milano, a Marsiglia, ad Amburgo, a Bogotà, a Tokyo, in Kosovo, in Montenegro, a Mosca. Si commercia la droga, si comprano i casinò di Las Vegas, fabbriche in Brianza, ristoranti a Roma, aree fabbricabili a Firenze e a Brescia. Il volume degli affari supera i 200 miliardi l'anno. Ma i capi vivono ancora nei tuguri sulla montagna o scontano il carcere duro e continuano a mandare ordini, a comandare, a governare il commercio insieme a tutte le mafie del mondo, mentre i figli e i nipoti parlano le lingue, sono seguiti da uno stuolo di avvocati e discutono di fidi e di prestiti con le banche e le fondazioni nei Caraibi, nel Liechtenstein, a Zurigo e a Miami.
Dopo due anni da quella sua inchiesta arrivò un altro tsunami, sembrava un intermezzo da cabaret, Berlusconi, Dell'Utri, Previti, il partito dell'amore, il contratto con gli italiani, le televisioni, le paillettes e le escort.
I Piromalli e i Macrì sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca "money money money", un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria "meno male che Silvio c'è". Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà e il mistero doloroso diventerà un mistero gaudioso. Così è stato e finalmente quella cricca ha fatto le valigie, cacciata dagli italiani di buona volontà ma anche da una tempesta che minaccia di travolgere un Paese impreparato ad affrontarla.Giorgio Bocca s'è battuto per tutti questi anni affinché l'Italia si rialzasse dal letamaio ed ha anche visto il finale di quella drammatica farsa. Poi se n'è andato anche lui che si considerava un anti-italiano perché detestava l'Italia che aveva sotto gli occhi.
Io ti ricorderò sempre, caro amico e compagno, tu la tua guerra partigiana non hai cessato mai di combatterla e ora hai il diritto di riposare in pace.
( 27dicembre 2011) E. Scalfari
27-12-2011 - Lutto nel giornalismo
L'addio al grande giornalista, a 91 anni.
Un "antitaliano" che ha scandagliato le pieghe della società italiana
(Alberto Papuzzi su LA STAMPA.it cultura)
Giorgio Bocca, era la stampa bellezza
Uno dei suoi ultimi libri, "È la stampa, bellezza!" (Feltrinelli 2008) comincia
così: «Il giornalismo di idee e di informazioni, come lo intese il secolo
borghese, è una specie in via d’estinzione, se non già estinta». Con queste
parole Giorgio Bocca, morto il giorno di Natale a 91 anni, indicava nel
giornalismo uno dei caratteri fondamentali del Novecento, così come le
grandi ideologie o la cultura fordista.
Al tempo stesso ne segnalava lo sfarinamento, il graduale ma inevitabile
crepuscolo, la crisi di un modello storico. Quella che aveva in mente era
la stampa americana, con le celebri icone, da Pulitzer a Hemingway, con
le sue virtù e i suoi vizi. Di tale modello novecentesco è stato uno degli
interpreti più accreditati, soprattutto come autore di inchieste sulla
società italiana, reporter che andava sul posto e dentro la notizia
coglieva problemi, fenomeni, trasformazioni, disastri. In questa veste
coglieva problemi, fenomeni, trasformazioni, disastri. In questa veste
di cronista è stato probabilmente il numero uno.
Nato a Cuneo nell’agosto del 1920, figlio di insegnanti, iscritto a Torino alla facoltà di Giurisprudenza, collaboratore di giornali locali (anche di fogli fascisti), campione nelle gare di sci, allo scoppio della guerra è chiamato alle armi come allievo ufficiale degli alpini. In questo periodo stringe amicizia con Duccio Galimberti, avvocato cuneese che diventerà uno dei capi delle formazioni di Giustizia e Libertà e sarà ucciso da una banda fascista. Così, dopo l’8 settembre, anche Bocca sale in montagna, assieme agli azionisti, prima in Val Grana, comandante della decima divisione, quindi in Val Maira, commissario politico della seconda. È proprio l’esperienza partigiana a spingerlo verso la scrittura. Nel 1945 pubblica con una piccola casa editrice Partigiani della montagna , che vende cinquantamila copie. È il trampolino di lancio: il libro piace a Massimo Caputo, direttore (di destra) della Gazzetta del Popolo , che lo manda a chiamare.
È una scuola dura, quella della Gazzetta . Sistemazione avventurosa in casa di un sindacalista, cene con Calvino che stava all’ Unità , nottate al tabarin, sempre di corsa, in concorrenza con La Stampa, oggi sbattuto in Polesine, per la grande alluvione del 1951, domani a un’assemblea degli azionisti Fiat. Quindi nel 1954 il passaggio all’ Europeo , che era all’epoca l’equivalente italiano dei grandi settimanali fotografici come Life oTime . Bocca se ne va da Torino con i cattivi ricordi di «una città biliosa». È l’ Europeo a farne una grande firma. Viaggia in tutto il mondo, segue molteplici eventi, deve intervistare il Negus e l’Aga Khan.
Ma la sua grande stagione è al Giorno , negli anni Sessanta. Perché il quotidiano fondato da Mattei propone un giornalismo di tipo nuovo. Bocca ci va quando diventa direttore l’ex partigiano Italo Pietra, e ne sposa la filosofia: «Raccontare la provincia, l’agricoltura, le fabbriche per come realmente erano, luoghi di vita e di conflitti». In realtà continua a occuparsi anche di eventi internazionali, dal processo Eichmann alla guerra dei Sei giorni. Ma è nello scandagliare le pieghe della società italiana che dà il meglio di sé e offre qualcosa di inedito. Il suo rapporto con la realtà italiana è quello del medico che ausculta il paziente. Anni dopo è tra i primi, per esempio, a scorgere il radicamento della Lega e di Bossi nella società lombarda, in una fase in cui sparivano i grandi partiti di massa. Al punto perfino di infatuarsene, per una breve fase.
All’epoca era già passato a Repubblica , partecipando con Scalfari, nel 1976, alla fondazione del giornale e teneva la rubrica «L’antitaliano» sull’ Espresso . Nella sua storia di giornalista ci sono le esperienze televisive alla Fininvest - sedotto da Berlusconi per una collaborazione presto destinata a fallire - e una moltitudine di libri, frutto delle sue inchieste o collezioni di suoi articoli: si contano sessanta titoli, nessuno ha scritto tanto.
Il ritratto non sarebbe completo se si dimenticassero le polemiche che hanno segnato la sua carriera. All’inizio degli anni Settanta pubblica la prima biografia di Palmiro Togliatti (presso Laterza), rompendo gli stereotipi che circondavano la figura del fondatore del Pci. In un’assemblea di redazione all’ Unità il direttore Aldo Tortorella dichiara: «Questo è un libro che non dovete far leggere e neanche leggere». Un altro versante di battaglia giornalistica è la dura polemica con Giampaolo Pansa, suo collega sia a Repubblica sia all’ Espresso : lo accusa di scrivere romanzi, ambientati tra le due guerre, che vedono convivere fascismo e antifascismo, introducendo forme di un revisionismo strisciante. È l’estremo episodio di una controversia professionale durata tutta la vita. Perciò, già ottantenne, torna a battersi per le ragioni che gli premevano da ventenne.
( da "L' Espresso")
Black bloc, il gioco della guerra ( di Giorgio Bocca)
Gli uomini hanno bisogno dell'esperienza della violenza, di
partecipare alla lotteria della morte. E' un'esigenza che
rinasce a ogni generazione. per "rialzare il tono della vita"
Chi sono i black bloc e gli altri giovanotti che percorrono l' Europa in odio alla civiltà industriale ma svolgono la funzione utilissima di consumare il surplus?
Cerco di evitarli, perchè alla mia età frequentare violenti essendo deboli
non ha senso. Ma credo di aver capito la ragione della loro presenza e del
loro successo, perchè con i mezzi di cui dispongono le polizie si potrebbero
anche levar di mezzo, e invece li si lascia fare quel che vogliono da Roma alla
Val Susa.
Sono l'eterno bisogno degli uomini di giocare alla guerra, meglio se una guerra per finta, anche se ogni tanto ci scappa il morto che serve a tenere alta l'eccitazione cioè il divertimento. Pure io nella fanciullezza ho partecipato alle guerre per gioco, e ricordo con un po' di nostalgia la loro assoluta mancanza di ragion pratica e al tempo delle bande giovanili sulle ripide della Stura e del Gesso a Cuneo.
Noi della banda di Cuneo Nuova avevamo costruito le nostre capanne non lontano dalla stazione ferroviaria, fumavamo dei pezzi di radici con un buco, acide, avevamo spade e scudi di cartone. E un nemico, il terribile Pecollo, figlio di una prostituta carico di odio per il mondo soprattutto per noi, figli di borghesi. Un giorno me lo trovai di fronte in un campo. Era di pelle scura, tozzo, torvo. Lui fece due passi avanti d'improvviso mi colpì con un pugno in piena faccia. Poi fuggì verso il bosco. Ero caduto a terra, sanguinante gemevo ma avevo compiuto la mia iniziazione a quel gioco a cui gli uomini non resistono dove ogni tanto si muore.
Non è un caso se i black bloc hanno scelto colori e simboli di morte. La guerra, diceva Cesare Pavese, "rialza il tono della vita", il suo fascino è l'altra faccia della sua stupidità. In tutti i momenti di guerra vera, quando era finita la guerra infantile con le spade e gli scudi di cartone, mi sono chiesto perché lo facessi, perché fossi caduto anch'io nella sua seduzione.
Le SS tedesche sono arrivate a Cuneo, hanno incendiato Boves, noi dalla Val Grana corriamo in soccorso dei compagni, pura follia. Nell'abitato di Borgo San Dalmazzo, dove c'è il bivio per Boves, incontriamo un camion di tedeschi. Faccio quel che fanno gli altri, sparo un colpo di fucile e quasi cado giù dal camion ripartito di scatto, noi di qua i tedeschi verso la Val Gesso in una guerra che dovevo ancora conoscere, capire, ma lo ricorderò per tutta la vita come uno dei momenti più intensi.
I momenti della violenza, il pugno di Pecollo, lo scontro di Boves, sono le banalità di cui la guerra fa i ricordi indimenticabili della tua vita. Se li eviti, se manchi quell'esperienza, è mancato qualcosa di decisivo. La morte, il rischio mortale, rendono epici fatti più banali. C'è un solo modo di far apparire inaccettabile la violenza: che sia a fin di bene, che venga esercitata solo per essere cancellata. Ma qui si apre il gioco senza fine delle illusioni, degli inganni, della malvagità compiuti in buona fede. Ci si illude anche di poter ricorrere come giudice finale alla ragione, ma ogni volta la ragione è sopraffatta dagli altri sentimenti e istinti vitali, i sette peccati capitali e i veniali da cui derivano.
Un biografo di Immanuel Kant ha scoperto che il padre della legge morale era un libertino e un gaudente e un corruttore.
Per consolidare una società civile non c'è che perseverare e perseverare nel rifiuto della violenza feroce, anche se piace alla scimmia assassina.
Si sarebbe tentati di usare come consolazione il fatto che le società umane sono sempre meno feroci e sempre più rispettose della legge, ma improvvisamente dittature come quella nazista o quella di Gheddafi ci riportano alla realtà: l'uomo è sempre disponibile alla ferocia insensata.
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Il ricordo di Giorgio Bocca continuerà con altri suoi articoli più
significativi-interessanti.
Lucianone