venerdì 28 aprile 2023

Commenti - Migranti / La strage di Cutro e le parole perse

 28 aprile '23 - venerdì                                  28th April / Friday                           visione post - 16

(da la Repubblica - 3 marzo '23 / di Luigi Manconi)

La strage di Cutro
Se perdiamo le parole
A scanso di quivoci, dico subito che Giorgia Meloni, il suo governo e i suoi ministri, non sono
responsabili della strage di domenica mattina davanti alle coste calabresi, ma sono responsabili,
certo, di un comportamento qualificabile come omissione di soccorso e di un irreparabile fallimento politico. Già, a poche ore dal naufragio, la premier e il ministro dell'Interno dichiaravano che l'unica soluzione, per evitare simili eventi, è "fermare le partenze". Cadono le braccia perchè, seriamente, 
c'è da credere che questi non sappiano quello che fanno.  E non sanno quello che dicono. 
Le persone perite nel naufragio provenivano, in gran parte.da Siria, Afghanistan, Pakistan, Iran, So-
malia e Territori palestinesi. Quasi tutte zone di guerra lunga e di guerra feroce. Bisognava "fermar-
le" là, in quelle terre martoriate, per costringerle a continuare la loro esistenza tra eccidi e bombarda-
menti, stupri di massa e schiavitù? Su quale testo della Costituzione hanno giurato quei ministri che 
sprezzano a tal punto il diritto d'asilo, tra i fondamenti essenziali della nostra civiltà giuridica? 
Poi vedremo di che pasta è fatta l'opposizione parlamentare e cosa riuscirà a mettere in campo. E noi?
Da qualche decennio, il mio principale mestiere è quello, pressapoco, di agitatore politico. Dico così
perchè il mio prevalente lavoro, in Parlamento e fuori, è stato quello di prendere parte a campagne 
di mobilitazione dell'opinione pubblica su questioni relative all'affermazione di diritti, garanzie e li-
bertà.  Con alterna e, in genere, modesta fortuna, ma con effetti certi di maggiore conoscenza e di
maggiore consapevolezza.  Oggi ricevo una telefonata da Franco Ippolito, fine giurista che mi chie-
de "che facciamo?" e Goffredo Fofi, scrittore e critico, mi domanda se non si debba promuovere
uno sciopero della fame. E io non so cosa rispondere loro.  Poi mi guardo intorno e mi accorgo che 
i più anziani di me, i Grandi Vecchi, stimati e benvoluti, come Corrado Augias, Dacia Maraini, 
Claudio Magris, Luigi Ferrajoli, Chiara Saraceno, Marco Bellocchio o altri, non trovano le "pa-
role per dirlo". E mi accorgo, ancora, che non ci sono cento docenti universitari, o più o meno,
che la prossima settimana terranno una lezione su "crisi umanitaria e responsabilità morale" e
mille insegnanti, o più o meno, che daranno ai loro studenti un elaborato su "movimenti umani 
e diritto d'asilo". E nemmeno leggo della decisione dei sindacati confederali di invitare a destina-
re un'ora di salari e stipendi per l'accoglienza dei sopravvissuti e per inviare le bare dei morti nei
paesi di provenienza. Non c'è stata, d'altra parte, alcuna compagnia teatrale  che abbia dedicato i
primi tre minuti dello spettacolo al naufragio di Cutro e nessuna orchestra che lo abbia fatto. E
nessun giornale, nessun ordine religioso o squadra di calcio che abbia adottato un distintivo, un
logo, un segno di lutto.  Insomma, è come se - al di là dell'emozione vissuta nella sfera più inti-
ma - non sia possibile alcun segnale, alcuna manifestazione, alcun messaggio di condivisione. 
Una Gigantesca Afasia. Alcune cause sono rintracciabili in quel dolore sociale talmente diffuso
e intenso da rendere impervia qualsiasi empatia con la sofferenza altrui; e in quella tendenza al-
l'assuefazione che rende ordinario, fino a banalizzarlo, il senso stesso della tragedia. Ma c'è, poi,
la nostra  -  di intellettuali, comunicatori, giornalisti, insegnanti, artisti... - incapacità di parola 
(dovuta anche al fatto di aver sproloquiato fin troppo in passato) e il suono falso  della  nostra 
lingua. Certo, emergono anche tracce in controtendenza: l'accoglienza della gente comune ca-
labrese verso il Capo dello Stato, qualche sommovimento negli orientamenti collettivi, anche
di parte moderata, il manifestarsi di una pietas che ci parla di un dolore profondo e profonda-
mente sentito. Ma è troppo presto per dire se tutto questo  sarà capace di rompere un silenzio
che sembra riguardare l'intera società e tutte le generazioni.  Come mai in passato, si avverte
una distanza profonda, e in apparenza incolmabile, tra le aspettative di milioni di giovani, già
calati nel futuro, e la loro difficoltà  nel comunicare  quelle attese, nel tradurle in parole, atti,
movimenti.  Ciò non si deve a povertà intellettuale e sprovvedutezza culturale, bensì a insicu-
rezza psicologica e a qualcosa di simile a crisi di panico.  E questo rende terribilmente diffici-
le, per le giovani generazioni, manifastare emozioni forti  pur davanti a enormi drammi  che
indubbiamente le coinvolgono.  E noi, adulti, anziani e vecchi non riusciamo a proporre alcu-
na forma di mediazione linguistica.  A queste generazioni, le più attrezzate intellettualmente 
e scientificamente della storia umana, l'anziano agitatore politico è incapace di parlare perchè
privo di uno straccio di linguaggio comune. Non solo: sembra che nessuno nemmeno tenti di
apprendere il loro alfabeto e la loro sintassi. Non le chiese, non i partiti politici, non l'arte e la
cultura. Solo l'universo delle interazioni virtuali e la dimensione della performance e dell'istan-
taneo paiono riflettere il mondo sentimentale e cognitivo di questa gioventù, dove le tragedie
arrivano, eccome, perchè sono più violente di qualunque linguaggio separato. Ma da dove non
ritornano a noi perchè la nostra lingua invecchiata non offre più alcuna risorsa e alcuno scam-
po. L'agitatore politico chiede, sommessamente e rispettosamente, ai giovani e agli studenti di
manifestare in qualche modo il loro lutto, il loro sdegno, la loro partecipazione emotiva, ma
sa che molto difficilmente ciò potrà accadere. Non è questa, tuttavia, una ragione sufficiente
per non provarci ancora.

Lucianone