27 aprile '16 - mercoledì 27th April / Wednesday visione post - 21
(da la Repubblica - 22 aprile '16 - LettereCommenti&Idee / Alberto Melloni)
Ago e filo per ricucire le lacerazioni del mondo
Ogni epoca ha conosciuto le lacerazioni politiche, confessionali, ideologiche, nazionali,
spesso ben più gravi di quelle che percorrono il dibattito politico dentro i partiti o le
istituzioni. Ma quelle che la cronaca registra da noi in questi mesi sembrano più dram-
matiche: perchè non sono episodi ripetuti, ma l'espressione di una cultura dello scisma
che riverbera nel piccolo della nostra cultura perchè riempie col suo sordo rumore il
mondo. Anzichè percepire l'esistenza d'una "societas" entro la quale si danno conflitti
e lotte con una direzione, vediamo attorno a noi il progredire di spaccature che fanno
ogni "societas" personale o collettiva un'accozzaglia di brandelli e risentimenti. Dove
tutto può diventare e diventa occasione per temersi e minacciarsi. Pezze disordinate
destinate a rimanere tali finchè non nascerà un'arte della sutura, la cultura dell'ago e
del filo. - Renzo Piano, in uno slancio di ottimismo, ha usato proprio la figura del"rammendo" per parlare con aristocratica dolcezza delle periferie urbane: ma basta
salire sugli autobus che attraversano i centri storici per sentire il rumore della paura,
che estranea le anime. Zygmunt Bauman ci propone da anni la metafora della società li-
quida: consolatoria al fondo: perchè suppone una solidarietà fisica fra le molecole, una
qualche prevedibilità dei comportamenti. La formula del Papa sulla terza guerra mon-
diale a capitoli viene salutata con entusiasmo, e tutti sperano che abbia ragione: giacchè
le guerre, prima o poi, finiscono. - In realtà ognuno ha coscienza di vivere afflitto da un
tribalismo molteplice, premoderno e postmoderno: fatto di panni laceri e sospetti invin-
cibili - che solo di rado e in comunità obbligatorie come quelle della scuola, della cella o
dell'ospedale si abbassano un poco. Perchè sul piano generale la cultura della "sforbicia-
ta" (lo scisma vuol dir questo: tagliare ciò che era stato intessuto in un unico telo) colpi-
sce su vasta scala. Sale da un punto molto profondo, la cultura dello scisma, e affiora in
quelli che sono esantemi: nel turpiloquio dei "lettori" che commentano gli articoli di
giornale sul web, nello smozzicato linguaggio dei social, nella catechesi del trash che
ogni giorno addita agli odiati chi odiare di più. La scissione metodica divide un "loro""
sempre più simile al "tutti", e un "noi" sempre più vicino all'"io" solitario del consuma-
tore, reso impotente e ringhioso dalla crisi. Tutti bloccati nell'attesa che qualcosa, qual-
cuno impugni ago e filo e ricrei quel tessuto comune nel quale il contrasto, duro e neces-
sario, ridiventi processo e non insulto vitalista.
Le sapienze spirituali e civili che ci appartengono ci hanno insegnato il valore di ago e filo.
La parola biblica, che ha infatti disilluso da sempre gli utopisti, ricorda a tutti che la per-
fezione andò perduta all'inizio del tempo, davanti all'albero del bene/male dove la più
dolce differenza della femmina e del maschio diventò occasione del primo "j'accuse":
scena, com'è noto, che impressionò assai il Creatore dei mondi, il quale nel primo lunedì
del tempo, compì un gesto profetico e si mise a cucire gli abiti dei progenitori. Con ago e
filo. - La sapienza costituzionale ha sempre pensato di non aver nulla di perfetto e di
non aver altro fondamento che la sua capacità di diffidare degli integralismi religiosi e
irreligiosi: ha dunque creato istituzioni che volevano tenere insieme la società e rendere
così possibile la fecondità comune della divergenza cucendola con principi, diritti, valo-
ri che sono l'ago e il filo della democrazia. Ma il mondo vede scossa, al ritmo del ciuffo
di Donald Trump, la fiducia nelle sapienze e nelle docrazie su scala globale.
E la società italiana ricalca nel suo piccolo questa tendenza. Le culture politiche si slab-
brano talmente tanto da aver reso le amministrative la madre di tutte le battaglie: come
se perdere o vincere Milano fosse la scena finale della "La guerra dei Roses" prodotto
dal Pd; con Sel che attende dalla sconfitta a Roma un oracolo sul proprio baricentro; la
destra che fa la sua prima resistenza alla desistenza; e il centrodestra che spera che il
taumaturgo delle sue incertezze venga da fuori. Le culture istituzionali si slabbrano,
perchè nel momento in cui la magistratura interroga il ministro dei rapporti col Parla-
mento sulla formazione della volontà politica di un Parlamento che troppo spesso il go-
verno ha trattato da notaio della propria agenda, si ha il senso di quanto profonde sia-
no le lacerazioni. I 14 partiti che sostengono Matteo Renzi ammirano, temono o sfrut-
tano molte cose di lui, ma non certo l'uso dell'ago e del filo; e di quelle forze che furono
movimenti di massa e "think tank" restano federazioni di minoranza e di smodate am-
bizioni, con pochi "tank" e ancor meno "think".
Vuol dire allora che ago e filo non si possono usare, che sono arnesi desueti o finiti? No:
e lo dimostrano due uomini così diversi come papa francesco e il patriarca Bartolomeo.
Loro hanno come vocazione quella di ricucire col filo del perdono le chiese così che di-
ventino per grazia la tunica "senza cuciture" di Gesù descritta dal vangelo di Giovanni:
e stanno obbedendo a quel comando. Ma il loro sforzo di unità viene visto da una politi-
ca analfabeta del religioso come un'eccezione del "pianetino cristiano", capace, se mai,
di impennate profetiche come la visita ai profughi di Lesbo. Invece è vero proprio il
contrario. Se il nome di Dio, usato nelle più irrefrenabili violenze, può essere usato per
fare perdono e unità, allora ogni ricucitura è possibile.
Se si cerca ago e filo, se si trovano la voglia di imparare a cucire e di rammendare.
Lucianone
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