10 gennaio '20 - venerdì - venerdì 10th January / Friday visione post - 15
(da la Repubblica - 10 dicembre '19 - di Stefania Parmeggiani / Roma)
"Per fare arte politica
ci metto il corpo"
"Sono un'artista e ho una coscienza politica". Regina Josè Galindo sorride, ma il tono è fermo, non
ammette repliche. Che nessuno la definisca "artivista", anche se, da vent'anni, instancabilmente, uti-
lizza il suo corpo per denunciare l'orrore della guerra civile in Guatemala, la violazione dei diritti
umani e della dignità delle donne, le implicazioni della violenza sociale e delle ingiustizie. Anche
se nelle sue performance accusa il potere, il concetto di alterità e la presunzione occidentale, quel-
lo che le interessa è venire riconosciuta come artista visuale e poetessa. Il resto sono solo etichette.
Vincitrice nel 2005 del Leone d'Oro alla Biennale di Venezia con il video di un intervento di imeno-
plastica effettuato sul suo corpo, Regina ha fatto di tutto: si è immersa in una vasca di acqua fred-
da trattenendo il fiato fino a sentirsi male, si è avvolta in un sacchetto di plastica e si è gettata in
una discarica di Città del Guatemala, si è incisa sul corpo la parola perra (cagna) come facevano
i soldati che praticavano gli stupri etnici, incinta di otto mesi si è incatenata al letto utilizzando dei
veri cordoni ombelicali, nella stessa posizione in cui erano legate e torturate le donne indigene per-
chè abortissero, ha innerso i piedi in un catino pieno di sangue, si è autofustigata,, denudata, ane-
stetizzata ed esposta agli sguardi del pubblico... Eppure, tutto questo non è solo politica o atto di
denuncia. E' poesia, immagini e parole che attingono alla tradizione delle pratiche sciamaniche
di guarigione e ai rituali religiosi, è un lungo filo rosso che unisce il suo primo atto psicomagico
- gridare poesie al vento appesa a un arco in abito da sposa - all'ultimo progetto, Lavarse las ma-
nos, performance che si svolgerà questa sera (10 dicembre) a Roma, melle sale della Real Aca-
demia de Espagna, e mostra - a cura di Federica La Paglia - che si inaugurerà negli stessi spazi
il 13 dicembre.
Intervista (di Stefania Parmeggiani)
Perchè rifiuta di definirsi "artivista"?
"Non mi piace questo termine, ammiro artiste come Tania Bruguera che lo rivendicano, ma io
sono un'attivista ogni giorno della mia vita. Poi è inevitabile che la mia coscienza politica si
rifletta in quello che faccio".
E' stata paragonata ad artiste come Marina Abramovic...
"Massimo rispetto, ma non mi sento vicina a nessuna donna bianca del primo mondo. Il mio
lavoro è direttamente collegato a ciò che sono: una donna, latino-americana, guatemalteca".
Il suo corpo è centrale in molti dei suoi lavori. Pensa di essere vulnerabile?
"No. Non sono una donna vulnerabile. Ho ascendenze Maya e nessuna donna Maya lo è. Sono
autonoma, sovrana e indipendente e questo grazie al mio lavoro, al riconoscimento ottenito al-
la Biennale di Venezia e all'appoggio della mia galleria. Il mercato dell'arte mi ha permesso,
come diceva Virginia Woolf, di avere una stanza tutta per me, indipendenza economica e quin-
di intellettuale".
L'intolleranza alle ingiustizie nasce dalla sua storia personale
"Quando cresci in un Paese come il Guatemala negli anni della guerra e del genocidio, quando
sei circondata dal negazionismo, quando vivi una nuova ondata di violenza e vedi i pesi colo-
nizzatori continuare a massacrare persone e terra, è inevitabile aprire gli occhi e maturare una
chiara idea di lotta sociale".
Nel 2003 ha immerso i piedi in un catino di sangue attraversando Ciudad de Guatemala per
protestare contro la candidatura alla presidenza dell'ex dittatore Efrain Rios Montt. Come
hanno reagito le persone?
"Vedevano le impronte e capivano... Il sangue è un simbolo universale e anche il dolore. Il pro-
blema non è la reazione della gente, ma quella delle istituzioni e delle imprese, le critiche che
arrivano da chi detiene il potere e che spesso suonano come una minaccia".
Non ha mai pensato di lasciare il Guatemala?
"Moltissime volte, soprattutto per dare la possibilità a mia figlia di vivere in un paese libero e
sicuro, ma non è facile ottenere i documenti. Qualche anno fa provai in Germania, richiesta
respinta".
Perchè si occupa di migrazioni?
"Ho iniziato a occuparmi del tema in Guatemala. Ho lavorato sulla carovana dei migranti e sui
centri di detenzione dei centroamericani in Texas. Missing Forever è incentrato sulle c inque
morti di bambini migranti guatemaltechi che hanno perso la vita all'interno dei centri di deten-
zione controllati dalla pattuglia di frontiera degli Stati Uniti. Poi ho pensato di indagare lo stes-
so fenomeno in altri contesti. Il progetto Cuestiones de estado, di cui Lavarse las manos fa par-
te, mette i visitatori di fronte alla vita degli altri, pone interrogativi sulla normalità dell'indiffe-
renza, sul pregiudizio e il paternalismo".
Ad esempio?
In Spagna incontro persone che mi dicono di non avre colpe per quello che accda nel mio paese.
E' vero, non hanno colpe dirette per quel che sta accadendo adesso, ma sono 500 anni che vivo-
no un privilegio sulla nostra pelle".
Pensa che l'arte possa cambiare il mondo?
Qualche anno fa avrei risposto di no. oggi penso che possa aiutare ad avere consapevolezza. E
la consapevolezza è necessaria quando si esercita il diritto di voto. I latinos che hanno votato
Trump cosa pensavano? Non credo che si rendessero conto di quello che sarebbe accaduto. E
gli americani? Con loro non mi appello neanche più all'empatia, ma all'egoismo. Se non sono
interessati ai bambini detenuti nei campi di Trump che almeno sappiano che i costi li pagano
loro".
E' sempre così arrabbiata?
"Sì, ma l'arte mi permette di prendere tutta questa rabbia e di trasformarla in qualcosa di po-
sitivo".
Lucianone
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