7 aprile '19 - domenica 7th April / Sunday visione post - 9
(da la Repubblica - 15 dicembre '18 - Concita De Gregorio)
L'Europa di Antonio
Sarebbe bello se servisse a qualcosa. Se riuscissimo per una volta - questa, proprio a partire
da ora - a non limitarci al cordoglio. Che dolore enorme, un ragazzo nei suoi vent'anni, che
muore così. Un colpo alla nuca, vigliacco e cieco, un obiettivo a caso. Antonio Megalizzi è sta-
to ucciso da un coetaneo, Chérif Chekatt: avevano 29 anni tutti e due. Nati nello stesso anno:
Antonio in Italia, cresciuto al Nord, a Trento, figlio di immigrati calabresi. Chérif in Francia,
a Strasburgo, figlio di immigrati magrebini. Figli dello stesso tempo. Neonati negli stessi me-
si. Proviamo a immaginare le traiettorie delle loro vite, simultanee. Entrambi convinti di fare
la cosa giusta: l'omicida - a sua volta ucciso - e la vittima.
Esiste la cosa giusta? Sì, esiste. E' giusto credere in un mondo aperto, grande, accogliente.
In un'Europa casa di tutti, nella fratellanza dei diversi. E' aberrante e criminale credere che
uccidere in nome di una religione possa fare giustizia, la disciplina dell'odio del nemico.
Ma è questo il mondo, è questo il tempo che li ha generati entrambi. La vittima e il carne-
fice. Come possiamo, se possiamo, decifrare l'enigma che è all'origine di tutte le paure? Il
buono, il cattivo. Basta dirsi questo per evitare che si ripeta? Siamo convinti che basti il
giudizio, il verdetto, perchè sia utile a cambiare le cose? Perchè le morti servano a evitare
altre morti. Per disinnescare l'odio.
Ho ascoltato a lungo i reportage radiofonisi di Antonio Megalizzi. Una luce, un ragazzo
pieno di passione per il bene comune. Credo che lui volesse questo: un luogo più giusto
dove vivere insieme. Allora ecco, per onorarlo oggi, non basta il cordoglio istituzionale,
di Stato e collettivo, di popolo. Che tragedia la sua morte come quella di Valeria Solesin
a Parigi, di Gloria Trevisan e Marco Gottardi a Londra, di tutti i nostri figli andati a cer-
care il futuro altrove. Che dolore inemendabile per il padre - Giordano, un ferroviere
nato in Calabria, volontario Avis - per sua madre Annamaria, per sua sorella, per la fi-
danzata Luana, per gli amici che hanno lasciato quella lettera bellissima sulla porta di
casa.
Antonio voleva fare il giornalista per raccontare le cose come stanno, ed era precario.
Non trovava lavoro, in Italia: non un lavoro degno di questo nome. Volontario, come la
maggior parte dei nostri figli. Era un nomade contemporaneo, pieno di tutto quello che
ci manca. Si spostava con Flixbus, 26 ore in pullman per arrivare a Strasburgo, era o-
spite di uno studente polacco. Lavorava per un sogno, Europhonica, un network di ra-
dio universitarie. Credeva in +Europa, il movimento di Emma Bonino. Voleva combat-
tere gli xenofobi, i seminatori di paure, studiando le leggi e raccontando le cose. Per ono-
rarlo non basta un funerale solenne, serve raccogliere il suo testimone.
Mandiamo i nostri figli nel mondo, in Europa, e ce ne andiamo dall'Europa. Li lasciamo
soli a percorrere i sogni che stiamo abbandonando. E' come se gli aprissimo la porta per
uscire e poi la richiudessimo suòl baratro alle loro spalle. Possiamo oggi, in morte di An-
tonio, non limitarci al funerale, al cordoglio? Proviamo. Possiamo chiederci se siamo in
grado di dire a una generazione intera: andate, ragazzi. Andate a mostrare ai vostri coe-
tanei che il mondo è un posto grande e libero, che non c'è spazio per il fanatismo - il fa-
natismo è una trappola mortale - e insieme, intanto, restare accanto a loro? Restare nel
luogo dove li abbiamo mandati, l'Europa, e difenderlo. Questo, per Antonio e per tutti,
dovremmo oggi fare. Difendere i desideri a cui li abbiamo educati. Averne cura, tanta.
Lucianone
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