lunedì 7 luglio 2014

Cultura - arte / Personaggio: Alfredo Jaar

7 luglio '14 - lunedì             7th July / Monday                        visione post - 12

Jaar: "L'arte cambia il mondo una persona alla volta"

L'artista cileno, intervistato, parla di bellezza e politica
( in occasione  della  grande  mostra
"Abbiamo amato tanto la rivoluzione" 
tenuta dalla Fondazione Merz di Torino
nel novembre 2013)

(da 'la Repubblica' - 12/11/2013 / R2 Cultura - Gregorio Botta, Torino)

"Abbiamo amato tanto la rivoluzione",  dice una scritta al neon  nell'enorme sala  della 
Fondazione Merz e la frase si riflette sullo spesso tappeto di vetro frantumato che copre
l'intero pavimento: 150 tonnellate di schegge, per la precisione.       Il visitatore le sente 
scricchiolare sotto i piedi come una presenza inquietante. Sta camminando sul suo passa-
to, sui sogni infranti di una generazione che voleva cambiare il mondo. Quanto rimpianto,
quanta nostalgia. "Sì - dice Alfredo Jaar - ma quanta possibilità di rinascere. Il vetro è un 
un materiale che si ricicla, può avere un'altra vita, e un'altra e un'altra ancora".
Un suono stridulo si diffonde nella sala: proviene da un video girato nel 1981, nel Cile di
Pinochet. E' lo stesso artista che tenta di suonare un clarinetto e non sa come. Note sgra-
ziate ma necessarie. "Sotto la dittatura non si può parlare chiaro, ma bisogna comunque
tentare di far sentire una voce". Il piffero della rivoluzione suona come può, con il pessi-
mismo della ragione e l'ottimismo della volontà di gramsciana memoria. E infatti il volto
di Gramsci - che con Pasolini è uno dei numi tutelari dell'artista - campeggia, moltiplica-
to in dodici disegni. "Ne sono ossessionato: appena ho del tempo libero, lo disegno".
Se c'è un artista politico al mondo, questo è Alfredo Jaar, che ha appena inaugurato la
sua mostra (a cura di Claudia Gioia) a Torino.    Coccolato dalla critica d'arte, esposto 
ovunque, (ha firmato più di 60 opere pubbliche in tutto il mondo) invitato ad ogni bien-
nale importante (da Documenta all'ultima Venezia, dove ha esposto  un  poeticissimo 
lavoro nel padiglione cileno) è sicuramente un caposcuola di quella wave estetica  che
unisce arte e impegno, poesia e militanza.
"Io sono nato 57 anni fa in Cile - spiega Jaar - ho visto il golpe contro Allende: per fare
arte ho dovuto subito imparare a parlare poeticamente tra le righe, a parlare senza par-
lare. Capisce? Era l'arte della resistenza. Io avevo  a che fare  con la censura.  Per me
l'arte è stata politica sin dal primo momento".
G. Botta - 'Fino a farla scappare dal Cile'.
A. Jaar  -  "La dittatura mi soffocava, dovevo fuggire. Ma mio padre mi convinse a lau-
rearmi in architettura prima di partire. Così quando arrivai a New York nell'82, per cin-
que anni mi mantenni lavorando come architetto.  Ma nel frattempo  cercavo  di capire
il mondo dell'arte americano: gallerie, musei, artisti. Tutto, insomma. Era molto affasci-
nante, ma ho scoperto due cose fondamentali. La prima è che l'America era molto pro-
vinciale".
G. Botta - 'Provinciale? Erano gli anni '80, Manhattan era la capitale culturale del globo,
l'ombelico del mondo'.
A. Jaar  -  "Macchè. Si parlava solo di New York, di Stati Uniti, e mai di Asia, Africa,
America Latina. Esistevano solo artisti americani e al massimo qualche tedesco.  Per
gli altri non c'era posto. Io, come sudamericano, non esistevo. La seconda cosa che ho 
scoperto è che in America nenache il mondo esisteva. C'erano 35 conflitti internaziona-
li, e nessuno ne parlava. Per me era inconcepibile: per me la relazione tra conflitto e ar-
te è naturale, è il contesto nel quale viviamo".
G. Botta - 'Però l'America le ha dato anche la grande occasione della sua vita'.
A. Jaar  -  "Vero. Nell'86 presi in affitto tutti gli spazi pubblicitari di una stazione della
metropolitana di Spring Street, vicina a Wall Street, affissi grandi poster  con  le  foto 
che avevo scattato nelle miniere d'oro di Serra Pelada, in Brasile.   Erano immagini di
un inferno dantesco:  uomini seminudi, coperti di fango che come formiche  brulicano 
nella enorme cava della montagna. A fianco di ciascuna foto c'era una semplice scritta:
la quotazione del prezzo dell'oro in una delle Borse del mondo".
G. Botta - 'Pagò lei un intervento così costoso?
A. Jaar  -  "No, partecipai ad un concorso del Guggenheim per una borsa e a loro piaque 
il progetto Così lo finanziarono: e pensi  che io  non ero  nessuno  in America, sono stati 
bravi!,,, E da lì è cambiata tutta la mia vita.  Achille Bonito Oliva mi portò alla Biennale
di Venezia, poi mi hanno invitato a Documenta e poi via via in tutto il mondo e ho potuto
dedicarmi solamente all'arte. Sono stato il primo sudamericano chiamato a Venezia: per
dirle che cos'era il mondo artistico all'epoca".
G. Botta - 'In effetti quel suo lavoro sull'oro crea uno shock visivo molto forte, mostran-
do il nesso tra due realtà che noi non siamo abituati a collegare. Da una parte il valore 
asettico dell'oro, dall'altra il lavoro di uomini reali, la fatica fisica bestiale, le vite indi-
viduali spezzate in miniera.  Ma a volte nell'arte politica il messaggio è preponderante: 
se le opere fanno la morale che cosa resta dell'estetica?'.
A. Jaar  -  "Sì, capisco il rischio. Ma io voglio informare con poesia. Non cerco informa-
zione pura e non cerco poesia pura: ma un equilibrio perfetto tra le due. Perchè se l'ope-
ra è troppo bella, troppo poetica, allora perde l'informazione. Diventa vuota. Anche se è 
bellissima, è solo decorazione. Ma se invece è troppo didattica, diventa banale.   E' una
linea molto sottile quella che cerco. A me piace l'arte critica, l'arte che contiene un pen-
siero".
G. Botta - 'E infatti lei dice che l'arte è 99% pensiero e 1% fare'.
A. Jaar  -  "Sì, per me è un modello di vedere e pensare il mondo. Quando devo fare un 
lavoro, che sia in Ruanda o in Australia, per prima cosa io vado, studio, mi informo, de-
vo capire. Il lavoro nasce dalla realtà che vedo: è il metodo che ho imparato dall'archi-
tettura.

Continuna... to be continued... 

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