In Brasile il calcio è in ostaggio: persi
coriandoli e sacralità. Ma il benessere
ha un prezzo.
(da La Gazzetta dello Sport - 22/06/2013
rubrica 'IlCommento' - Alessandro De Calò)
Il futebol arte,
paradiso perduto nel nuovo Brasile
La parola Brasile è così evocativa, lo stereotipo è talmente radicato in migliaia di
teste che, quando si parla di calcio, tanti continuano a credere che la Selecao sia
la nazionale più forte del mondo. L'effetto è simile a quello della luce emessa dal-
le stelle che hanno cessato di esistere: dovendo percorrere migliaia di chilometri,
la luce ci mette una vita ad arrivare ai nostri occhi e quando arriva finisce che la
vediamo anche se la stella non c'è più. Svaporata. Nel ranking Fifa - nonostante
Neymar - i nipotini di Pelè sono rotolati dalla vetta, giù, fino al ventiduesimo po-
sto... Stanno là, sotto al Ghana e sopra al Mali. Un livello africano, ormai mar-
ginale.
ASCESA DELLA SPAGNA
Per quante sciocchezze possa contenere - come ogni verdetto statistico - la classi-
fica della Federcalcio mondiale racconta una aprte di verità. E una cosa resta
evidente: c'è stato un cambio di testimone. Inizialmente timido, poi sempre più
solido. La Spagna di questi anni è diventata quello che il Brasile ha saputo
essere nella seconda metà del secolo scorso. Non solo la squadra più forte, in
grado di battere tutti sempre e comunque - in modo inesorabile - ma anche
quella che riempie gli occhi e il cuore, con il suo gioco coraggioso, totale, of-
fensivo. Il calcio risollevato a livello di arte è una cosa rara, un modello
da inseguire, perchè è capace di tenere assieme la bellezza dello spettacolo
con la necessità della vittoria.
Grazie alla spinta propulsiva del Barcellona, la Spagna è entrata nel circolo
virtuoso che esalta le qualità individuali di una generazione straordinaria
con i perfetti meccanismi collettivi collaudati a livello di club e felicemente
traslocati nella Seleccion.
DECLINO DEL BRASILE
Probabilmente il vecchio Zico aveva ragione a sostenere che la sconfitta del
suo Brasile contro l'Italia , nel Mondiale 1982, ha cambiato qualcosa nella
storia del calcio segnando il capolinea di un modello di gioco della Selecao,
una nuova fine dell'innocenza dopo il terribile Maracanazo del 1950. Da al-
lora - tolta la felice parentesi con Zagallo di fine anni Novanta - la Cana-
rinha non si è più ripresa. Ha vinto due Mondiali, nel 1994 e nel 2002, è ve-
ro, ma li ha vinti un pò per caso, senza dominare, senza essere la squadra
favorita. Niente di epocale.
L'europeizzazione del gioco brasiliano , la normalizzazione imposta dalla
prevalenza della forza fisica e della tattica sulla qualità tecnica, ha avuto
tra le sue conseguenze una minore produzione di talenti. Per ragioni di-
verse, sotto lo stesso comune denominatore, l'Europa ha consumato in
fretta il genio dei Ronaldo, Kakà, Ronaldinho, Adriano, Pato. E para-
dossalmente, nonostante il boom economico abbia permesso di riportare
in Brasile alcuni campioni emigrati in Europa, il nuovo benessere nonù
ha tolto i tifosi dal disincanto. Nel Brasilerao si gioca un calcio tignoso,
poco spettacolare e gli stadi restano vuoti (13 mila presenze a partita).
La Selecao è stata riaffidata al vecchio Scolari, buon gestore di uomini
ma interprete di un calcio prudente, solido, vetero europeo e poco crea-
tivo.
Nel 1950 la sconfitta con l'Uruguay si era trasformata in un dramma
per il Brasile, inteso come paese. Adesso i ruoli sono ribaltati. Anzichè
farsi usare dal futebol - per disperarsi o festeggiare - la gente gioca d'an-
ticipo e usa il calcio per protestare davanti al mondo. Sembra un paradi-
so perduto, è il prezzo del benessere che, faticosamente, avanza.
Lucianone
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