29 gennaio '19 - martedì 29th January / Tuesday visione post - 9
(da il manifesto - 6 gennaio '19 - di Marcello Lorrai)
Il suono della paura
Quando la musica può cambiare la vita
"Ho registrato lìesperienza di milioni di persone : la privazione della libertà,
la vendita all'asta, la lavorazione della canna per produrre zucchero".
Erlaine Mitchener è una giovane vocalist britannica i cui interessi spaziano dal jazz alla musica contemporanea, dall'improvvisazione alla performance, dal movimento alla dan-
za. Ha in repertorio i Song Books di John Cage. Ha interpretato Manga Scroll di Chri-
stian Marclay, oggi forse più conosciuto nell'ambito dell'arte contemporanea che della
musica, e lavori del compositore sperimentale Alvin Lucier e di Ben Patterson, uno dei
protagonisti di Fluxus. Il suo Sweet Tooth, che ha avuto la sua prima londinese nel feb-
braio 2018, è una vibrante riflessione in chiave di teatro musicale sulla schiavitù a par-
tire dalle sue origini giamaicane. Ha allestito un programma di Vocal Classics of the
Black Avant-Garde, con brani di Jenne Lee, Archie Shepp, Joseph Jarman, Eric Dol-
phy (lo riproporrà domani a Londra al Cafè Oto). Sta preparando un omaggio a Jen-
ne Lee, la più grande vocalist del free (prima il 14 giugno nella capitale britannica, al
Kings Place). .E con il pianista Alexander Hawkins, uno dei più brillanti e dinamici protagonisti della giovane generazione dell'improvvisazione europea, ha inciso in quar-
tetto UpRoot (Intakt, 2017) intestato ad entrambi. Lo scorso settembre è stata ospite in
Sardegna per il festival 'Ai confini del jazz', sua prima esibizione italiana.
Inizio intervista
- Come ha iniziato a cantare?
E.M. - Sono nata a Londra. I miei genitori sono giamaicani. Ho cominciato a cantare in chiesa.
gospel, ho fatto parte di un gruppo vocale di ragazze: in questo senso il mio è stato un per--
corso molto tradizionale. Poi ho studiato canto al Trinity College of Music e ho preso lì il mio
diploma, poi ho continuato alla Goldsmiths University. Ammiravo il canto classico, l'ho studia-
to alla Trinity, e ho imparato a cantare in italiano, francese, tedesco: arie, brani del repertorio
tradizionale e la base di quella tecnica è veramente importante per quello che faccio adesso.
Mi piace andare alle opere, mi piace sentire le cantanti, le ammiro e sono una grossa ispirazio-
ne., ma ho capito presto che non avrei voluto avere una carriera da cantante classica tradizio-
nale, perchè i miei interessi sono più ampi.
- Cosa le mancava?
E.M. - Se da giovane hai cantato gospel in chiesa, ti sei trovata a dover eseguire delle canzo-
ni all'ultimo momento, giusto il tempo di capire il titolo e di sperare che il pianista o l'organi-
sta la suoni in una chiave in cui puoi cantarla: e, semplicemente, lo fai. E quando hai impa-
rato a farlo da molto giovane hai imparato ad improvvisare, e a farlo senza avere paura, ed è
una cosa che ti piace oltre che un allenamento eccezionale per una attività come musicista
professionista. Ho anche imparato che le canzoni aiutano le persone a guardare a se stessi,
e a prendere delle decisioni importanti: una canzone può cambiarti la vita. Questo me lo ha insegnato la chiesa, non ilmusic college. Dopo ho trovato veramente difficile sentire in questa prospettiva le arie di Mozart o di Puccini: io conosco il senso di questi brani che musicamen-
te sono meravigliosi, ma sono qualcosa che non è per me esperienza reale. Il music college ha
un pò ucciso il mio amore per il canto, e ne sono uscita non molto convinta.
- E come è arrivata poi all'attività professionale?
E.M. - Ho fatto altre cose, cantavo un pò ma avevo paura di farla diventare una carriera, per-
chè è dura. Cantare come lavoro mi spaventava, avevo degli amici che lo facevano e vedevo
che lotta era. Hai un'ora di gioia e dopo ti dici: quando sarà la prossima performance? Quan-
do entreranno altri soldi? Lavoravo per la Ricordi come promotion manager, promuovevo
compositori a Londra, e ho appreso molto sul business della musica classica, un impiego de- cisamen interessante. E' successo che qualcuno dei miei clienti ha scoperto che cantavo e mi
hanno chiesto di farlo nei lavori dei compositori che cercavano di far eseguire. Mi hanno in-
coraggiata. In definitiva ero una performer: la porta si era aperta. E così ho cambiato lavoro.
- Quando è entrata in contatto con la scena improvvisativa?
E.M. - Avevo quattordici-quindici anni e il mio insegnante di flauto a scuola era un improv-
visatore free, neil Metcalfe. Siamo diventati amici, io ero troppo piccola per andare ai con-
certi, ma lui è stato il mio primo contatto con questa scena. Poi ho cominciato ad entrare in
questo ambito con il mio ex marito, pianista: oltre che con Neil ho lavorato molto con Steve
Beresford, Evan Parker, Mark Sanders, John Butcher, David Toop, e sono stata guest con
la London Improvisers Orchestra. Amo molto lavorare con un vocalist come Phil Minton.
E' una scena ricca con improvvisatori di talento.
- Un recensore ha scritto che grazie all'intensità della sua interpretazione, ha fatto tremare
le pietre della chiesa di Londra in cui ha presentato "Sweet Tooth".
E,M. - Mio padre è morto cinque anni fa e pensavo a cosa avevamo in comune, per esempio
amavamo lo zucchero. E ho cominciato a ragionare sulle varie implicazioni dello zucchero,
a come può fare male alla salute, a come viene prodotto e, rispetto al passato, al fatto che
era una merce molto costosa. Ma anche al costo umano necessario per fornire questo bene
in paesi lontani dal luogo da cui lo zucchero proveniva. Ho lavorato con uno storico: mi af-
fascinava come il sistema della schiavitù potesse stare in piedi ed era solo attravesro la pau-
ra e la disumanizzazione. Questo è stato il mio punto di partenza: il suono della paura.
In Sweet Tooth registro l'esperienza di milioni di persone. La privazione della libertà. la
tortura, le punizioni, la vendita all'asta, la lavorazione della canna per produrre lo zuc-
chero, i momenti in cui gli schiavi potevano divertirsi e cantare, momenti in cui c'era
anche qualcosa di sovversivo che poteva portare alla rivolta, che era la paranoia dei pro-
prietari di piantagioni. A Londra Sweet Tooth è stata presentata a St George's, a Bloom-
sbury, una chiesa aperta nel settecento al culmine della tratta, che ebbe tra suoi benefat-
tori ricchi schiavisti e che poi ha avuto un ruolo nel movimento abolizionista. In maggio
invece è stata proposta al Museum of London Docklands, dove veniva immaganizzato lo
zucchero proveniente dai Caraibi. Sweet Tooth è un lavoro difficile da presentare, fisi-
camente difficile anche per i musicisti, Sylvia Hallett, Jason Jarde e Mark Sanders, che
devono muoversi in scena. Per me è un lavoro non solo sulla schiavitù ma su noi oggi,
perchè gli esseri umani hanno una incredibile caèpacità di infliggere sofferenze. Mi au-
guro ci spinga a porci delle domande su di noi, sul perchè noi beneficiamo dello sfrut-
tamento che avviene in altre parti del mondo.
- Ascoltandola dal vivo con Alexander Hawkins era impossibile non pensare a Jeanne
Lee...
E.M. - Dovevo avere 18 anni e Neil Metcalfe mi diede una cassetta dicendomi: penso che
ti potrebbe piacere. Era Jeanne Lee con Ran Blake. Non è che non mi sia piaciuta ma non
la capii, era chiamato jazz ma non lo era, suonava piuttosto come una cosa contemporanea,
avantgarde, e la sua non era una voce così "jazz": non era una voce brutta ma nemmeno
"bella" in senso convenzionale. Una voce con un vibrato molto veloce, ma che non si esten-
de. Non trovi in lei la normale cantante di jazz, non è Sarah Vaughan, non è Ella Fitzgerald,
non è quel tipo di voce. Ma questo la rende più interessante. Ricordo di avere sentito la cas-
setta e poi di non averla più ascoltata per anni. Ma poi ci sono tornata. Lei amava Abbey Lin-
coln, c'è un suono come Abbey Lincoln, viene fuori da quella linea, ma è estremamente per-
sonale e muove la tecnica oltre, verso altre direzioni. E poi la danza, Fluxus, John Cage, la
sound poetry: sono stata colpita dalla somiglianza degli interessi, non potevo credere che
questa donna aveva fatto tanti anni fa queste cose che io sto cercando di fare adesso. Qual-
cuno ha detto che lei è la mia madre spirituale: io cerco di mantenere la mia individualità
ma mi interessa questa linea. E riconosco che dentro di me è ben presente.
Lucianone
DI TUTTO e di PIU Ambiente / Appuntamenti / Arte / / Cibo-cucina / Commenti / Cultura / Curiosità-comicità / Dossier / Economia-Finanza / Fotografia / Inchiesta / Intervista / Istruzione / Lavoro / Lettere / Libri / Medicina / Motori / Musica / Natura / Opinione del Giovedì / Personaggi / Psicologia / Reportage / Riflessioni-Idee / Salute / Scienze / Società-Politica / Spettacoli (cinema/tv) / Sport / Stampa-giornali / Storie / Tecnologia-Internet / Ultime notizie / Viaggi
martedì 29 gennaio 2019
mercoledì 23 gennaio 2019
SPORT - calcio / serie B - 20^ giornata 2018/19
24 gennaio '18 - mercoledì 24th January / Wedfnesday visione post - 10
RISULTATI
Carpi 0 Cosenza 0 Crotone 0 Lecce 1 Padova 3 Palermo 1
Foggia 2 Ascoli 0 Cittadella 0 Benevento 1 Verona 0 Salernitana 2
Perugia 0 Pescara 0 Spezia 1
Brescia 2 Cremonese 0 Venezia 1
Lucianone
RISULTATI
Carpi 0 Cosenza 0 Crotone 0 Lecce 1 Padova 3 Palermo 1
Foggia 2 Ascoli 0 Cittadella 0 Benevento 1 Verona 0 Salernitana 2
Perugia 0 Pescara 0 Spezia 1
Brescia 2 Cremonese 0 Venezia 1
Lucianone
Ultime notizie - dall'Italia e dal Mondo / Latest news
24 gennaio '18 - mercoledì 24th January / Wednesday visione post - 8
VENEZUELA
Guaidò si proclama presidente / Usa, Canada e molti altri Paesi lo riconoscono
Il parlamento si rivolta contro Maduro / Decine di migliaia in piazza.
Venezuela nel caos -
CARACAS - Si impenna, improvvisamente, la tensione in Venezuela. Il giovane Juan Guaidó, leader dell'Assemblea nazionale, si è autoproclamato presidente "pro tempore" del Paese, lui che guida il Parlamento dominato dall'opposizione e dichiarato nei giorni scorsi "illegittimo" dal Tribunale supremo controllato dal regime.
In piazza, davanti ai sostenitori riuniti a Caracas, Guaidó ha lanciato ufficialmente la sua sfida a Nicolás Maduro, che due settimane fa si era insediato per un secondo mandato presidenziale, ma l'opposizione non ha mai riconosciuto il risultato delle elezioni e diversi Paesi considerano illegittimo il leader chavista.
Donald Trump è stato il primo a riconoscere Guaidó come capo dello Stato. "Non consideriamo nulla, ma tutte le opzioni sono sul tavolo", ha detto ai giornalisti alla Casa Bianca quando gli è stato chiesto se intendesse inviare i militari statunitensi in Venezuela. Al presidente americano hanno fatto seguito i riconoscimenti di Canada, Argentina, Brasile, Perù, Ecuador, Costa Rica, Paraguay e Messico.
In serata anche il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, ha dichiarato: "Spero che tutta l'Europa si unisca nel sostegno alle forze democratiche in Venezuela. A differenza di Maduro, l'Assemblea parlamentare, incluso Juan Guaidò, ha un mandato democratico dai cittadini venezuelani".
ROMA
scontro nel governo per Trivelle / Ministro Costa: "Non firmo, pronto a lasciare"
A riscchio il decreto semplificazioni
Rinvio in Senato / Salta riunione della commissione
L'ira della presidente Casellati: "Rispetto per le istituzioni
M5S:: "Non arretriamo di un centimetro"
Sulle trivelle in mare è scontro nel governo. Da un lato il ministro dell'Ambiente Sergio Costa che annuncia il no politico a qualsiasi autorizzazione. Dall'altro la Lega, con il sottosegretario all'Economia, il leghista Massimo Garavaglia che replica: "L'iter è in corso, Costa non può fare quello che vuole". La soluzione di compromesso, che doveva essere inserita nel decreto Semplificazioni, è saltata. Come anche la seduta in commissione al Senato che era stata prevista per la serata. Mentre il ministro Toninelli assicura che nella notte sarà trovata una soluzione. Senza un'intesa, l'intero decreto potrebbe essere travolto.
ITALIA -
Castelnuovo di Porto
Via migranti e operatori dal CARA.
Chiuso il Cara, un sistema che funzionava
Lucianone
VENEZUELA
Guaidò si proclama presidente / Usa, Canada e molti altri Paesi lo riconoscono
Il parlamento si rivolta contro Maduro / Decine di migliaia in piazza.
Venezuela nel caos -
CARACAS - Si impenna, improvvisamente, la tensione in Venezuela. Il giovane Juan Guaidó, leader dell'Assemblea nazionale, si è autoproclamato presidente "pro tempore" del Paese, lui che guida il Parlamento dominato dall'opposizione e dichiarato nei giorni scorsi "illegittimo" dal Tribunale supremo controllato dal regime.
In piazza, davanti ai sostenitori riuniti a Caracas, Guaidó ha lanciato ufficialmente la sua sfida a Nicolás Maduro, che due settimane fa si era insediato per un secondo mandato presidenziale, ma l'opposizione non ha mai riconosciuto il risultato delle elezioni e diversi Paesi considerano illegittimo il leader chavista.
Donald Trump è stato il primo a riconoscere Guaidó come capo dello Stato. "Non consideriamo nulla, ma tutte le opzioni sono sul tavolo", ha detto ai giornalisti alla Casa Bianca quando gli è stato chiesto se intendesse inviare i militari statunitensi in Venezuela. Al presidente americano hanno fatto seguito i riconoscimenti di Canada, Argentina, Brasile, Perù, Ecuador, Costa Rica, Paraguay e Messico.
In serata anche il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, ha dichiarato: "Spero che tutta l'Europa si unisca nel sostegno alle forze democratiche in Venezuela. A differenza di Maduro, l'Assemblea parlamentare, incluso Juan Guaidò, ha un mandato democratico dai cittadini venezuelani".
ROMA
scontro nel governo per Trivelle / Ministro Costa: "Non firmo, pronto a lasciare"
A riscchio il decreto semplificazioni
Rinvio in Senato / Salta riunione della commissione
L'ira della presidente Casellati: "Rispetto per le istituzioni
M5S:: "Non arretriamo di un centimetro"
Sulle trivelle in mare è scontro nel governo. Da un lato il ministro dell'Ambiente Sergio Costa che annuncia il no politico a qualsiasi autorizzazione. Dall'altro la Lega, con il sottosegretario all'Economia, il leghista Massimo Garavaglia che replica: "L'iter è in corso, Costa non può fare quello che vuole". La soluzione di compromesso, che doveva essere inserita nel decreto Semplificazioni, è saltata. Come anche la seduta in commissione al Senato che era stata prevista per la serata. Mentre il ministro Toninelli assicura che nella notte sarà trovata una soluzione. Senza un'intesa, l'intero decreto potrebbe essere travolto.
ITALIA -
Castelnuovo di Porto
Via migranti e operatori dal CARA.
Chiuso il Cara, un sistema che funzionava
Lucianone
lunedì 14 gennaio 2019
Spettacoli / cinema - "BlacKkKlansman": film di Spike Lee sull'America e la rappresentazione della razza
14 gennaio '18 - lunedì 14th January / Monday visione post - 7
(da la Repubblica - 27 settembre '18 - Emiliano Morreale)
La storia raccontata in questo film, vincitore del Gran premio della giuria al Festival di
Cannes, è di quelle che si dicono perfette per il cinema, e il suo regista ideale era cer-
tamente Spike Lee. Ron Stallworth, poliziotto afroamericano di Colorado Springs, nei
primi anni Settanta si infiltrò nel Ku Klux Klan locale tenendo i contatti al telefono, e
mandando di persona un collega collegato con un radiomicrofono. Il film ha una voca-
zione esplicitamente politica, vuol comunicare col grande pubblico attraverso i mecca-
nismi spettacolari: da un lato, quindi, toni da commedia action (retti benissimo dalla
coppia di attori John David Washington e Adam Driver, nel ruolo dei due poliziotti in-
filtrati); dall'altro improvvise aperture didattiche: un finto filmato iniziale con Alex
Baldwin che lancia proclami contro lo strapotere di neri ed ebrei, un discorso di Sto-
kely Carmichael sul significato del "potere nero", un monologo in cui Driver spiega
al collega come "fare il nero", il racconto di un linciaggio fatto da un Harry Belafon-
te novantaduenne e davvero impressionante, alternato con un discorso del capo del
KKK David Duke. E, dall'altro lato, in bocca ai cattivi ci sono slogan di sinistra at-
tualità ("Make America Great Again", "America First", eccetera), a volte in manie-
ra un pò troppo calcata. Con dei toni così carichi e dei cattivi lombrosiani, un rischio
è di mostrare gli adepti del Klan come un branco di idioti, dunque in fondo poco pe-
ricolosi anche, se ben inseriti in un sistema e in un'ideologia. Per sventare questo pe-
ricolo, Lee nel finale esplicita la portata attuale del suo film, e mostra le dimostrazio-
ni di Charlottesville, durante un raduno di suprematisti bianchi, neonazisti eccetera,
e le scandalose affermazioni del presidente Trump in quell'occasione.
Eppure questo film che, a parte l'eccessiva lunghezza, riesce a centrare l'obioettivo
che si era prefisso, mostra tra le sue stesse pieghe un progetto ancora più ambizioso
che il regista accenna soltanro. E' un film sulla rappresentazione della razza, sulle
colpe del cinema stesso (a cominciare ovviamente da La nascita di una nazione di
Griffith e da Via col vento, entramni citati), con la proposta parallela di un sotterra-
neo contro-canone "sporco" che parte dal cinema blaxploitation degli anni 70. Una
linea purtroppo soltanto abbozzata, che avrebbe fatto di BlacKkKlansman un film
più ricco e appassionante.
Lucianone
(da la Repubblica - 27 settembre '18 - Emiliano Morreale)
La storia raccontata in questo film, vincitore del Gran premio della giuria al Festival di
Cannes, è di quelle che si dicono perfette per il cinema, e il suo regista ideale era cer-
tamente Spike Lee. Ron Stallworth, poliziotto afroamericano di Colorado Springs, nei
primi anni Settanta si infiltrò nel Ku Klux Klan locale tenendo i contatti al telefono, e
mandando di persona un collega collegato con un radiomicrofono. Il film ha una voca-
zione esplicitamente politica, vuol comunicare col grande pubblico attraverso i mecca-
nismi spettacolari: da un lato, quindi, toni da commedia action (retti benissimo dalla
coppia di attori John David Washington e Adam Driver, nel ruolo dei due poliziotti in-
filtrati); dall'altro improvvise aperture didattiche: un finto filmato iniziale con Alex
Baldwin che lancia proclami contro lo strapotere di neri ed ebrei, un discorso di Sto-
kely Carmichael sul significato del "potere nero", un monologo in cui Driver spiega
al collega come "fare il nero", il racconto di un linciaggio fatto da un Harry Belafon-
te novantaduenne e davvero impressionante, alternato con un discorso del capo del
KKK David Duke. E, dall'altro lato, in bocca ai cattivi ci sono slogan di sinistra at-
tualità ("Make America Great Again", "America First", eccetera), a volte in manie-
ra un pò troppo calcata. Con dei toni così carichi e dei cattivi lombrosiani, un rischio
è di mostrare gli adepti del Klan come un branco di idioti, dunque in fondo poco pe-
ricolosi anche, se ben inseriti in un sistema e in un'ideologia. Per sventare questo pe-
ricolo, Lee nel finale esplicita la portata attuale del suo film, e mostra le dimostrazio-
ni di Charlottesville, durante un raduno di suprematisti bianchi, neonazisti eccetera,
e le scandalose affermazioni del presidente Trump in quell'occasione.
Eppure questo film che, a parte l'eccessiva lunghezza, riesce a centrare l'obioettivo
che si era prefisso, mostra tra le sue stesse pieghe un progetto ancora più ambizioso
che il regista accenna soltanro. E' un film sulla rappresentazione della razza, sulle
colpe del cinema stesso (a cominciare ovviamente da La nascita di una nazione di
Griffith e da Via col vento, entramni citati), con la proposta parallela di un sotterra-
neo contro-canone "sporco" che parte dal cinema blaxploitation degli anni 70. Una
linea purtroppo soltanto abbozzata, che avrebbe fatto di BlacKkKlansman un film
più ricco e appassionante.
Lucianone
giovedì 3 gennaio 2019
L'Opinione del Giovedì - Male e Bene: sapere sempre distinguerli. Nè neutrali, nè indifferenti.
3 gennaio '19 - giovedì 3rd January / Thursday visione post - 9
La banalità del Male / barbarie
"Ormai sta diventando normale. Tragicamente normale. Ordinaria amministrazione.
Odio antisemita quotidiano. Insulti razzisti in razione giornaliera. Dentro gli stadi, fuo-
ri degli stadi. Persino durante le feste. Sui muri delle città." (è l'apertura di un arti-
colo di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera del 10 gennaio di quest'anno - 2019,
e il pezzo - un commento - ha per titolo "Se l'odio razzista diventa "normale" dentro
e fuori gli stadi). "Nessun provvedimento per il mantenimento dell'ordine pubblico, ovviamente doveroso e necessario in sè, può però contrastare da solo questa orribile
banalizzazione dell'antisemitismo, questo odio per l'ebreo ridotto a una "merda" da
oltraggiare insieme agli odiati avversari calcistici. Come se fosse normale, scontato,
accettabile. Come se fosse una ragazzata un pò spinta. No, la mascalzonata antisemi-
ta non è banale, l'insulto razzista non è normale. A questa deriva va posto un argine.
Perchè anche la barbarie non diventi banalità quotidiana" (e questa è la chiusura del
commento di Pierluigi Battista, a margine dei fatti accaduti subito dopo la festa della
Lazio calcistica - anniversario per i 119 anni della società Lazio - con guerriglia degli
ultras contro i poliziotti, e susseguenti volantini antisemiti lasciati per le strade roma-
ne).
Quello che segnala e sottolinea, preoccupato, il giornalista Battista è il fatto che si sta
assistendo a un assorbimento mentale passivo da parte di tanta gente di ciò che si ve-
de e si legge riguardo la barbarie che si palesa intorno e spesso anche dentro i campi
di calcio: perchè gli ululati razzisti contro i giocatori di colore e gli slogan antisemiti
e gli assalti alle forze dell'ordine o alle altre bande rivali sono pura Barbarie (in lette-
ra grande). E ad essere coinvolta è naturalmente l'intera società, ma si deve anche al-
lo stesso tempo capire cosa non va in questa società soprattutto quando, come anco-
ra dice lo stesso Pierluigi Battista, è chiaro che nessun provvedimento preso dalle for-
ze dell'ordine può da solo costituire una soluzione terminale per questa Barbarie. In
quanto (qui sono io a precisarlo) il giorno dopo o nei giorni successivi gli episodi di
barbara violenza vanno a ripetersi, e con delle morti pure periodiche. Si deve allora
per forza pensare ad un imbarbarimento della nostra stessa società. E non parlo so-
lo della società italiana, ma delle società intere o anche di quella globalizzata.
Ma rimanendo ad esaminare, nel nostro caso, la società italiana si vedono molti altri
aspetti di degrado di civiltà - altra espressione che spiega il vocabolo barbarie - che
ogni giorno ci appaiono in tivù o li scopriamo sulle pagine digitali dei cellulari o nel-
le pagine di quotidiani e riviste: genitori che picchiano insegnanti, studenti che offen-
dono la dignità di insegnanti fatti oggetto di spregio con atti inconcepibili fino a una
decina di anni fa, familiari di pazienti che picchiano dottori e infermieri, e perfino
maestre che compiono atti barbarici su piccoli alunni di elementari e d'asilo, e assi-
stenti di ricoveri d'anziani che maltrattano schiavizzandoli dei vecchi inermi.
Penso che questa nostra società, malata piuttosto gravemente, ha bisogno di riacqui-
stare la capacità di esaminare o riesaminare molto meglio quella che è la differenza
tra il Male e il Bene, ritrovando prima di tutto la giusta coscienza per farlo, Magari
usando la coscienza con la C maiuscola. Se non lo fa, è una società che rischia l'assue-
fazione al Male, ma credo che in certa parte di società sia già avvenuto: una partico-
lare assuefazione a fatti quotidiani di barbarie.
Continua...
to be continued...
La banalità del Male / barbarie
"Ormai sta diventando normale. Tragicamente normale. Ordinaria amministrazione.
Odio antisemita quotidiano. Insulti razzisti in razione giornaliera. Dentro gli stadi, fuo-
ri degli stadi. Persino durante le feste. Sui muri delle città." (è l'apertura di un arti-
colo di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera del 10 gennaio di quest'anno - 2019,
e il pezzo - un commento - ha per titolo "Se l'odio razzista diventa "normale" dentro
e fuori gli stadi). "Nessun provvedimento per il mantenimento dell'ordine pubblico, ovviamente doveroso e necessario in sè, può però contrastare da solo questa orribile
banalizzazione dell'antisemitismo, questo odio per l'ebreo ridotto a una "merda" da
oltraggiare insieme agli odiati avversari calcistici. Come se fosse normale, scontato,
accettabile. Come se fosse una ragazzata un pò spinta. No, la mascalzonata antisemi-
ta non è banale, l'insulto razzista non è normale. A questa deriva va posto un argine.
Perchè anche la barbarie non diventi banalità quotidiana" (e questa è la chiusura del
commento di Pierluigi Battista, a margine dei fatti accaduti subito dopo la festa della
Lazio calcistica - anniversario per i 119 anni della società Lazio - con guerriglia degli
ultras contro i poliziotti, e susseguenti volantini antisemiti lasciati per le strade roma-
ne).
Quello che segnala e sottolinea, preoccupato, il giornalista Battista è il fatto che si sta
assistendo a un assorbimento mentale passivo da parte di tanta gente di ciò che si ve-
de e si legge riguardo la barbarie che si palesa intorno e spesso anche dentro i campi
di calcio: perchè gli ululati razzisti contro i giocatori di colore e gli slogan antisemiti
e gli assalti alle forze dell'ordine o alle altre bande rivali sono pura Barbarie (in lette-
ra grande). E ad essere coinvolta è naturalmente l'intera società, ma si deve anche al-
lo stesso tempo capire cosa non va in questa società soprattutto quando, come anco-
ra dice lo stesso Pierluigi Battista, è chiaro che nessun provvedimento preso dalle for-
ze dell'ordine può da solo costituire una soluzione terminale per questa Barbarie. In
quanto (qui sono io a precisarlo) il giorno dopo o nei giorni successivi gli episodi di
barbara violenza vanno a ripetersi, e con delle morti pure periodiche. Si deve allora
per forza pensare ad un imbarbarimento della nostra stessa società. E non parlo so-
lo della società italiana, ma delle società intere o anche di quella globalizzata.
Ma rimanendo ad esaminare, nel nostro caso, la società italiana si vedono molti altri
aspetti di degrado di civiltà - altra espressione che spiega il vocabolo barbarie - che
ogni giorno ci appaiono in tivù o li scopriamo sulle pagine digitali dei cellulari o nel-
le pagine di quotidiani e riviste: genitori che picchiano insegnanti, studenti che offen-
dono la dignità di insegnanti fatti oggetto di spregio con atti inconcepibili fino a una
decina di anni fa, familiari di pazienti che picchiano dottori e infermieri, e perfino
maestre che compiono atti barbarici su piccoli alunni di elementari e d'asilo, e assi-
stenti di ricoveri d'anziani che maltrattano schiavizzandoli dei vecchi inermi.
Penso che questa nostra società, malata piuttosto gravemente, ha bisogno di riacqui-
stare la capacità di esaminare o riesaminare molto meglio quella che è la differenza
tra il Male e il Bene, ritrovando prima di tutto la giusta coscienza per farlo, Magari
usando la coscienza con la C maiuscola. Se non lo fa, è una società che rischia l'assue-
fazione al Male, ma credo che in certa parte di società sia già avvenuto: una partico-
lare assuefazione a fatti quotidiani di barbarie.
Continua...
to be continued...
Riflessioni - Giornalisti: quasi eroi del nostro tempo
3 gennaio '18 - giovedì 3rd January / Thursday visione post - 9
Tra le categorie depresse della rivoluzione tecnologica, i giornalisti hanno l'enorme vantaggio
di poter contare sulla formidabile pubblicità (gratuita) prodotta dagli attacchi di despoti, capi-
popolo e politicanti di vario calibro. Ecco che, di colpo, non solo l'inviato di guerra o il croni-
sta di mafia (che per lavoro corrono un rischio reale), ma il placido redattore sportivo, il noti.
sta di costume, l'esperto di Borsa, il critico cinematografico, addirittura il corsivista da scriva-
nia oramai gottoso per la lunga inattività fisica (eccomi), si sentono di colpo promossi al ran-
go romanzesco, eroico, di "nemico del popolo", che è la dicitura oggi corrente per dire oppo-
sitore del governo. Si ringiovanisce, ci si risente utili e pimpanti anche a dispetto del l,ogorio
della routine, si redigono le poche o molte righe quotidiane con l'entusiasmo del veterano ri-
chiamato al fronte. Ci si riteneva ormai reperti, come il torchio di Gutenberg, e invece ci si
ritrova in animoso cimento, come personaggi di Dumas padre. E' giusto metterla sul piano,
sempre sacrosanto, dei principi da difendere. Ma c'è, più bassa eppure palpitante, anche
un'altra verità: l'uomo (e anche la donna) ha un quid puerile che lo salva sempre, e l'idea
di poter rompere le balle a qualcuno ha ringiovanito di almeno vent'anni questo e altri grup-
pi di lavoro. E dunque: grazie Di Maio.
(da la Repubblica - 10 ottobre '18 - L'Amaca / Michele Serra)
Tra le categorie depresse della rivoluzione tecnologica, i giornalisti hanno l'enorme vantaggio
di poter contare sulla formidabile pubblicità (gratuita) prodotta dagli attacchi di despoti, capi-
popolo e politicanti di vario calibro. Ecco che, di colpo, non solo l'inviato di guerra o il croni-
sta di mafia (che per lavoro corrono un rischio reale), ma il placido redattore sportivo, il noti.
sta di costume, l'esperto di Borsa, il critico cinematografico, addirittura il corsivista da scriva-
nia oramai gottoso per la lunga inattività fisica (eccomi), si sentono di colpo promossi al ran-
go romanzesco, eroico, di "nemico del popolo", che è la dicitura oggi corrente per dire oppo-
sitore del governo. Si ringiovanisce, ci si risente utili e pimpanti anche a dispetto del l,ogorio
della routine, si redigono le poche o molte righe quotidiane con l'entusiasmo del veterano ri-
chiamato al fronte. Ci si riteneva ormai reperti, come il torchio di Gutenberg, e invece ci si
ritrova in animoso cimento, come personaggi di Dumas padre. E' giusto metterla sul piano,
sempre sacrosanto, dei principi da difendere. Ma c'è, più bassa eppure palpitante, anche
un'altra verità: l'uomo (e anche la donna) ha un quid puerile che lo salva sempre, e l'idea
di poter rompere le balle a qualcuno ha ringiovanito di almeno vent'anni questo e altri grup-
pi di lavoro. E dunque: grazie Di Maio.
(da la Repubblica - 10 ottobre '18 - L'Amaca / Michele Serra)
Società / Russia - Giornalisti e Wagner, l'esercito privato di Putin
3 gennaio '18 - giovedì 3rd January / Thursday visione post - 11
( da la Repubblica - 2 agosto '18 - di Federico Varese)
Ancora una volta dei giornalisti sono stati uccisi mentre facevano il loro mestiere. E' accaduto
due giorni fa, nella Repubblica Centrafricana. Lavoravano ad un documentario su una socie-
tà russa di contractors, il gruppo Wagner, legata a doppio filo al Cremlino. Non è la prima vol-
ta che chi indaga su Wagner muore. Orkhan Dzhemal, Aleksandr rastorguev e Kirill Radc-
henko erano in Africa dal 27 luglio. Si vociferava da un pò che nel Paese vi fossero centinaia
di mercenari russi, ma non era ancora del tutto chiaro il loro ruolo. Domenica scorsa i tre gior-
nalisti avevano cercato di entrare nel quartiere generale del Wagner a Sibut, una cittadina lon-
tano dalla capitale, ma gli era stato impedito. Lunedì avevano un appuntamento con una fonte
e, per raggiungerla, dovevano percorrere la stessa strada che li aveva portati a Sibut. Durante
il tragitto, un gruppo di uomini armati è sbucato dal nulla e ha crivellato di colpi i tre uomini,
mentre la loro guida si è salvata. Miracolosamente. Perchè rischiare la vita per saperne di più
su Wagner? E che cosa ci fanno i mercenari russi nella Repubblica Centrafricana? Andiamo
con ordine. Il Gruppo Wagner è stato fondato nel 2014 da un ex colonnello delle forze specia-
li, Dimitri Utkin, oggi colpito dalle sanzioni americane. Sembra che il nome Wagner derivi
dalla passione di Utkin per la cultura tedesca. Le organizzazioni paramilitari sono illegali in
Russia, ma questo non impedisce al gruppo di avere due sedi, una a San Pietroburgo e una
ad Hong Kong, e di usare campi di addestramento dell'esercito. Si racconta che chi inizia il
training con loro non abbia più accesso al mondo esterno, debba consegnare passaporto e
telefonini, e "scomparire" fino alla fine della missione. Se si torna vivi.
I legami col potere politico sono forti: Utkin è stato fotografato al Cremlino con Putin. Evge-
nij Prigozhin, famoso per essere il cuoco del Presidente e sotto indagine negli Usa per aver
interferito nelle elezioni del 2016, sembra avere investito ingenti somme nel gruppo, ma lui
nega ogni legame diretto. Secondo il capo dei servizi segreti ucraini, "Il gruppo Wagner è
l'esercito privato di Putin, che può essere usato in ogni angolo del mondo. E infatti questi mercenari erano in Ucraina nel 2014, hanno affiancato l'esercito russo regolare durante
l'annessione della >Crimea e di recente sono intervenuti per deporre il presidente delle Re-
pubblica Popolare di Lugansk. Dal 2015 combattono in Siria con grande valore, Secondo
alcune stime, ve ne erano più di 5.000 nel 2017. Il giornalista Maksim Borodin nel 2018
ha rivelato che centinaia di mercenari del Wagner erano morti in Siria, imbarazzando il governo. Borodin è morto il 15 aprile di quest'anno dopo essere caduto dal quinto piano
del suo appartamento a Ekaterinburg. Verdetto ufficiale: suicidio. La famiglia e i colle-
ghi non ci credono. .Che cosa ci fanno i mercenari del Wagner nella REpubblica Centra-
fricana? Il Paese è ricco di risorse minerarie, soprattutto uranio, ma anche oro e diaman-
ti. Allo stesso tempo, è in preda a una guerra civile che si protrae dal 2012.
Il presidente attuale, eletto nel 2016 in elezioni molto dubbie, ha perso l'appoggio della
Francia e si trova in una situazione molto precaria, con il controllo effettivo di solo una
piccola parte del Paese. Dopo avre convinto le Nazioni Unite a togliere l'embargo sulla
vendita di armi, la Russia ha iniziato un vasto programma di aiuti militari. Il modello
di influenza negli stati clienti, già sperimentato in Siria e Libia, è lo stesso: gli aiuti mi-
litari vengono affiancati dall'invio di un grosso contingente di mercenari, "istruttori"
e consulenti politici in grado di difendere il traballante presidente con qualunque mez-
zo. L'influenza passa attraverso compagnie private, finalmente distinte dal governo,
che si dedicano anche alla protezione e allo sfruttamento delle risorse locali. Secondo
le fonti non confermate che ho potuto consultare, la compagnia che sfrutterà le risor-
se minerarie è una sussidiaria del gruppo wagner. Vi è una fusione di interessi econo-
mici, politici e militari. E la violenza viene usata liberamente. Ma le prove di questo
nesso sono difficili da trovare. Così la morte di tre giornalisti in una polverosa stra-
da africana può essere attribuita ad una rapina finita male.
Lucianone
( da la Repubblica - 2 agosto '18 - di Federico Varese)
Ancora una volta dei giornalisti sono stati uccisi mentre facevano il loro mestiere. E' accaduto
due giorni fa, nella Repubblica Centrafricana. Lavoravano ad un documentario su una socie-
tà russa di contractors, il gruppo Wagner, legata a doppio filo al Cremlino. Non è la prima vol-
ta che chi indaga su Wagner muore. Orkhan Dzhemal, Aleksandr rastorguev e Kirill Radc-
henko erano in Africa dal 27 luglio. Si vociferava da un pò che nel Paese vi fossero centinaia
di mercenari russi, ma non era ancora del tutto chiaro il loro ruolo. Domenica scorsa i tre gior-
nalisti avevano cercato di entrare nel quartiere generale del Wagner a Sibut, una cittadina lon-
tano dalla capitale, ma gli era stato impedito. Lunedì avevano un appuntamento con una fonte
e, per raggiungerla, dovevano percorrere la stessa strada che li aveva portati a Sibut. Durante
il tragitto, un gruppo di uomini armati è sbucato dal nulla e ha crivellato di colpi i tre uomini,
mentre la loro guida si è salvata. Miracolosamente. Perchè rischiare la vita per saperne di più
su Wagner? E che cosa ci fanno i mercenari russi nella Repubblica Centrafricana? Andiamo
con ordine. Il Gruppo Wagner è stato fondato nel 2014 da un ex colonnello delle forze specia-
li, Dimitri Utkin, oggi colpito dalle sanzioni americane. Sembra che il nome Wagner derivi
dalla passione di Utkin per la cultura tedesca. Le organizzazioni paramilitari sono illegali in
Russia, ma questo non impedisce al gruppo di avere due sedi, una a San Pietroburgo e una
ad Hong Kong, e di usare campi di addestramento dell'esercito. Si racconta che chi inizia il
training con loro non abbia più accesso al mondo esterno, debba consegnare passaporto e
telefonini, e "scomparire" fino alla fine della missione. Se si torna vivi.
I legami col potere politico sono forti: Utkin è stato fotografato al Cremlino con Putin. Evge-
nij Prigozhin, famoso per essere il cuoco del Presidente e sotto indagine negli Usa per aver
interferito nelle elezioni del 2016, sembra avere investito ingenti somme nel gruppo, ma lui
nega ogni legame diretto. Secondo il capo dei servizi segreti ucraini, "Il gruppo Wagner è
l'esercito privato di Putin, che può essere usato in ogni angolo del mondo. E infatti questi mercenari erano in Ucraina nel 2014, hanno affiancato l'esercito russo regolare durante
l'annessione della >Crimea e di recente sono intervenuti per deporre il presidente delle Re-
pubblica Popolare di Lugansk. Dal 2015 combattono in Siria con grande valore, Secondo
alcune stime, ve ne erano più di 5.000 nel 2017. Il giornalista Maksim Borodin nel 2018
ha rivelato che centinaia di mercenari del Wagner erano morti in Siria, imbarazzando il governo. Borodin è morto il 15 aprile di quest'anno dopo essere caduto dal quinto piano
del suo appartamento a Ekaterinburg. Verdetto ufficiale: suicidio. La famiglia e i colle-
ghi non ci credono. .Che cosa ci fanno i mercenari del Wagner nella REpubblica Centra-
fricana? Il Paese è ricco di risorse minerarie, soprattutto uranio, ma anche oro e diaman-
ti. Allo stesso tempo, è in preda a una guerra civile che si protrae dal 2012.
Il presidente attuale, eletto nel 2016 in elezioni molto dubbie, ha perso l'appoggio della
Francia e si trova in una situazione molto precaria, con il controllo effettivo di solo una
piccola parte del Paese. Dopo avre convinto le Nazioni Unite a togliere l'embargo sulla
vendita di armi, la Russia ha iniziato un vasto programma di aiuti militari. Il modello
di influenza negli stati clienti, già sperimentato in Siria e Libia, è lo stesso: gli aiuti mi-
litari vengono affiancati dall'invio di un grosso contingente di mercenari, "istruttori"
e consulenti politici in grado di difendere il traballante presidente con qualunque mez-
zo. L'influenza passa attraverso compagnie private, finalmente distinte dal governo,
che si dedicano anche alla protezione e allo sfruttamento delle risorse locali. Secondo
le fonti non confermate che ho potuto consultare, la compagnia che sfrutterà le risor-
se minerarie è una sussidiaria del gruppo wagner. Vi è una fusione di interessi econo-
mici, politici e militari. E la violenza viene usata liberamente. Ma le prove di questo
nesso sono difficili da trovare. Così la morte di tre giornalisti in una polverosa stra-
da africana può essere attribuita ad una rapina finita male.
Lucianone
martedì 1 gennaio 2019
Sport - calcio / Serie A - 19^ giornata 2018/19
1 gennaio '19 - martedì 1st January / Tuesday visione post - 7
Risultati e classifica
Juventus 2 Chievo 1 Empoli 0 Genoa 0 Lazio 1 Parma 0
Sampdoria 1 Frosinone 0 Inter 1 Fiorentina 0 Torino 1 Roma 2
Sassuolo 2 Udinese 2 Napoli 3 Milan 2
Atalanta 6 Cagliari 0 Bologna 2 Spal 1
JUVENTUS 53 / Napoli 44 / Inter 39 / Lazio 32 / Milan 31 /Roma 30 /
Sampdoria 29 / Atalanta 28 / Torino 27 / Fiorentina 26 / Sassuolo, Parma 25 /
Cagliari, Genoa 20 / Udinese 18 / Spal 17 / Empoli 16 / Bologna 13 /
Frosinone 10 / Chievo 8
IL COMMENTO
cONTINUA... TO BE CONTINUED...
Risultati e classifica
Juventus 2 Chievo 1 Empoli 0 Genoa 0 Lazio 1 Parma 0
Sampdoria 1 Frosinone 0 Inter 1 Fiorentina 0 Torino 1 Roma 2
Sassuolo 2 Udinese 2 Napoli 3 Milan 2
Atalanta 6 Cagliari 0 Bologna 2 Spal 1
JUVENTUS 53 / Napoli 44 / Inter 39 / Lazio 32 / Milan 31 /Roma 30 /
Sampdoria 29 / Atalanta 28 / Torino 27 / Fiorentina 26 / Sassuolo, Parma 25 /
Cagliari, Genoa 20 / Udinese 18 / Spal 17 / Empoli 16 / Bologna 13 /
Frosinone 10 / Chievo 8
IL COMMENTO
cONTINUA... TO BE CONTINUED...
Personaggio - L'ultimo sorriso di Simcha Rotem: l'eroe del ghetto di Varsavia
1 gennaio '19 - martedì 1st January / Tuesday visione post - 7
( da la Repubblica - 24 dicembre '18 - di Wlodek Goldkporn)
In una foto, scattata nel 1977 nel kibbutz dei combattenti dei ghetti, in Israele si vedono
tre uomini e due donne, tra i 50 e i 60 anni di età seduti su un divano. A sinistra, un pò più
in alto rispetto ai compagni e compagne, c'è Itzhak Cukerman, accanto, ul suo amico, venu-
to in visita dalla Polonia, Marek Edelman; segue Zvia Lubetkin, moglie di Itzhak, testimo-
ne al processo Eichmann, l'unica lodata da Hannah Arendt; a destra di Lubetkin c'è Luba
Gavissar e infine Simcha Rotem. - Rotem è il più giovane di tutti, all'epoca ha 52 anni ed è
l'unico che ride. I cinque sono ex combattenti della rivolta nel ghetto di Varsavia, la prima
insurrezione armata nell'Europa occupata dai nazisti, scoppiata il 19 aprile 1943. Poche
centinaia di ragazzi e ragazze (le donne non erano solo staffette, combattevano armi in ma-
no) che per oltre tre settimane hanno resistito agli eserciti di Hitler. L'ultimo di questi eroi, Rotem è scomparso il 22 dicembre (3018). Legge della natura si dirà, nessuno è immortale.
Ma ora, con la scomparsa di Kazik (questo era il suo nome di battaglia) dei 220 militanti
dell'Organizzazione ebraica di combattimento non resta più nessuno in vita. La memoria
si fa narrazione di chi ha letto e ascoltato i racconti. L'epoca dei testimoni di quel gesto
di ribellione (e di speranza: si dice che combatterono per morire dignitosamente, ma chi
ha avuto la pazienza di ascoltare davvero i protagonisti, sa che lottarono per sopravvive-
re) è chiusa. Kazik, un nome da ragazzo proletario non ebreo, salvò la vita ai combatten-
ti in fuga dai tedeschi, mentyre il ghetto veniva raso al suolo. La storia è questa. Rotem
aveva quello che si chiamava "il buon aspetto". Buon aspetto, nella Polonia di allora, si-
gnificava essere biondo. E poi, parlava il polacco senza inflessione yiddish. Kazik aveva
quindi le carte in regola per girare dalla parte ariana di Varsavia senza destare sospetti.
E comunque poteva far fronte ai delatori che per soldi e per pura cattiveria, denuncia-
vano gli ebrei ai nazisti. ma oltre al buon aspetto Kazik era coraggioso e ostinato. Così
fra il 30 aprile e il 1 maggio venne mandato oltre il muro del ghetto per preparare le vie
di fuga. Non era il solo, ma era il più giovane, il più sfacciato e il più fortunato. Non era
facile, quando tornò la prima volta nel ghetto a cercare i suoi compagni, i palazzi non
esistevano più. Le versioni su come sia andata sono varie, a seconda del narratore. In ogni
caso l'8 maggio un gruppo di insorti, guidato da Marek Edelman (e mentre il comandante
Mordechai Anielewicz e molti militanti si suicidavano nel bunker di via Mila 18), era sce-
so nelle condotte fognarie. Uscirono, dopo due giorni nei sotterranei sommersi dalla mel-
ma, assetati e quasi impazziti, da un tombino, in via Prosta, la mattina del 10 maggio e sa-
lirono su un camion preparato da Kazik. Ma non finì bene. Qualcuno si accorse che c'era
gente rimasta nelle fogne. Due combattenti vennero mandati a cercare i compagni smarri-
ti. Uno di loro, Szlamek Szuster, aveva 17 anni, era il miglior amico di Kazik. Nessuno ha
saputo che fine abbiano fatto: a un certo punto venne dato l'ordine di far partire il camion
senza aspettare appunto il ritorno di Szlamek. Quel camion arrivò in un boschetto vicino
a Varsavia. Kazik continuò a combattere, partecipò all'insurrezione del 1944, attraversò,
(per ordine di Cukerman e Laubetkin) le linee nemiche, per raggiungere il governo comu-
nista installatosi all'Est della >Vistola; e fino alla fine della vita ripeteva che quell'ordine
era insensato, che ha rischiato di essere ucciso per vanità dei suoi comandanti e che lui
quel gesto non l'aveva mai perdonato ai due. Finita la guerra, accanto ad alcuni ex parti-
giani ebrei faceva parte del gruppo dei Vendicatori: cercavano una ritorsione sui tedeschi,
voleva avvelenare il pane in un campo di prigionieri per lo più SS, ma l'avventura finì pre-
sto e senza grandi esiti. Andò a vivere in Israele, faceva l'imprenditore, ogni tanto litigava
con gli ex compagni, e non ha mai smesso di pensare all'amico Szlameck, morto per salva-
re gli altri o forse perchè qualcuno ha fatto muovere il camion troppo presto. Eppure, quel
giormo al kibbutz sorrideva. Le vie degli eroi non sono lineari, altrimenti sarebbero uomi-
nie donne comuni.
Lucianone
( da la Repubblica - 24 dicembre '18 - di Wlodek Goldkporn)
In una foto, scattata nel 1977 nel kibbutz dei combattenti dei ghetti, in Israele si vedono
tre uomini e due donne, tra i 50 e i 60 anni di età seduti su un divano. A sinistra, un pò più
in alto rispetto ai compagni e compagne, c'è Itzhak Cukerman, accanto, ul suo amico, venu-
to in visita dalla Polonia, Marek Edelman; segue Zvia Lubetkin, moglie di Itzhak, testimo-
ne al processo Eichmann, l'unica lodata da Hannah Arendt; a destra di Lubetkin c'è Luba
Gavissar e infine Simcha Rotem. - Rotem è il più giovane di tutti, all'epoca ha 52 anni ed è
l'unico che ride. I cinque sono ex combattenti della rivolta nel ghetto di Varsavia, la prima
insurrezione armata nell'Europa occupata dai nazisti, scoppiata il 19 aprile 1943. Poche
centinaia di ragazzi e ragazze (le donne non erano solo staffette, combattevano armi in ma-
no) che per oltre tre settimane hanno resistito agli eserciti di Hitler. L'ultimo di questi eroi, Rotem è scomparso il 22 dicembre (3018). Legge della natura si dirà, nessuno è immortale.
Ma ora, con la scomparsa di Kazik (questo era il suo nome di battaglia) dei 220 militanti
dell'Organizzazione ebraica di combattimento non resta più nessuno in vita. La memoria
si fa narrazione di chi ha letto e ascoltato i racconti. L'epoca dei testimoni di quel gesto
di ribellione (e di speranza: si dice che combatterono per morire dignitosamente, ma chi
ha avuto la pazienza di ascoltare davvero i protagonisti, sa che lottarono per sopravvive-
re) è chiusa. Kazik, un nome da ragazzo proletario non ebreo, salvò la vita ai combatten-
ti in fuga dai tedeschi, mentyre il ghetto veniva raso al suolo. La storia è questa. Rotem
aveva quello che si chiamava "il buon aspetto". Buon aspetto, nella Polonia di allora, si-
gnificava essere biondo. E poi, parlava il polacco senza inflessione yiddish. Kazik aveva
quindi le carte in regola per girare dalla parte ariana di Varsavia senza destare sospetti.
E comunque poteva far fronte ai delatori che per soldi e per pura cattiveria, denuncia-
vano gli ebrei ai nazisti. ma oltre al buon aspetto Kazik era coraggioso e ostinato. Così
fra il 30 aprile e il 1 maggio venne mandato oltre il muro del ghetto per preparare le vie
di fuga. Non era il solo, ma era il più giovane, il più sfacciato e il più fortunato. Non era
facile, quando tornò la prima volta nel ghetto a cercare i suoi compagni, i palazzi non
esistevano più. Le versioni su come sia andata sono varie, a seconda del narratore. In ogni
caso l'8 maggio un gruppo di insorti, guidato da Marek Edelman (e mentre il comandante
Mordechai Anielewicz e molti militanti si suicidavano nel bunker di via Mila 18), era sce-
so nelle condotte fognarie. Uscirono, dopo due giorni nei sotterranei sommersi dalla mel-
ma, assetati e quasi impazziti, da un tombino, in via Prosta, la mattina del 10 maggio e sa-
lirono su un camion preparato da Kazik. Ma non finì bene. Qualcuno si accorse che c'era
gente rimasta nelle fogne. Due combattenti vennero mandati a cercare i compagni smarri-
ti. Uno di loro, Szlamek Szuster, aveva 17 anni, era il miglior amico di Kazik. Nessuno ha
saputo che fine abbiano fatto: a un certo punto venne dato l'ordine di far partire il camion
senza aspettare appunto il ritorno di Szlamek. Quel camion arrivò in un boschetto vicino
a Varsavia. Kazik continuò a combattere, partecipò all'insurrezione del 1944, attraversò,
(per ordine di Cukerman e Laubetkin) le linee nemiche, per raggiungere il governo comu-
nista installatosi all'Est della >Vistola; e fino alla fine della vita ripeteva che quell'ordine
era insensato, che ha rischiato di essere ucciso per vanità dei suoi comandanti e che lui
quel gesto non l'aveva mai perdonato ai due. Finita la guerra, accanto ad alcuni ex parti-
giani ebrei faceva parte del gruppo dei Vendicatori: cercavano una ritorsione sui tedeschi,
voleva avvelenare il pane in un campo di prigionieri per lo più SS, ma l'avventura finì pre-
sto e senza grandi esiti. Andò a vivere in Israele, faceva l'imprenditore, ogni tanto litigava
con gli ex compagni, e non ha mai smesso di pensare all'amico Szlameck, morto per salva-
re gli altri o forse perchè qualcuno ha fatto muovere il camion troppo presto. Eppure, quel
giormo al kibbutz sorrideva. Le vie degli eroi non sono lineari, altrimenti sarebbero uomi-
nie donne comuni.
Lucianone
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