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(da 'la Repubblica' - 05/12/'14 - LettereCommenti&Idee - Tito Boeri)
Occupiamoci delle case
Forse Matteo Salvini ha posato per Oggi credendo di avere indosso i nuovi abiti del
sindaco. La sua strategia è ormai chiara: prepara la candidatura scatenando guerre
fra disperati. Non ci risulta che quando era capogruppo in Comune o adesso da se-
gretario federale della Lega, abbia fatto alcunchè per spingere le maggioranze di cui
faceva parte in città e in Regione ad ampliare l'offerta di alloggi popolari e a ristruttu-
rare il patrimonio di edilizia abitativa pubblica.
Eppure, fin quando ci sarà una sproporzione così forte fra domanda e offerta di allog-
gi popolari, il problema rimarrà ingestibile. In Italia ci sono 700mila famiglie in attesa
di assegnazione a fronte di 45mila alloggi di edilizia residenziale pubblica disponibili
ogni anno. Come dire che una famiglia su 15 viene accontentata ogni anno con liste
d'attesa che durano quanto un terzo della vita lavorativa. Più di un quarto degli italiani
che dormono per strada o nei centri di assistenza a Milano e Roma hanno fatto doman-
da per una casa popolare e, nonostante debbano avre priorità, sono mediamente in atte-
sa da 6 anni. Molte case popolari sono degradate, fino a un terzo quelle sfitte. Renderle
disponibili ridurrebbe lo squilibrio fra domanda e offerta, ma le agenzie territoriali che
le gestiscono (l'Aler a Milano e l'Ater a Roma) non hanno i soldi per ristrutturare gli al-
loggi sfitti. Hanno fatto investimenti sbagliati e non riescono a riscuotere gli affitti, do-
po che la crisi ha fatto lievitare tassi di morosità già elevati in partenza e i canoni sono
bassi (in media meno di 100 euro al mese). In questo contesto, le occupazioni abusive
sono spesso l'unico modo per avere una casa in tempo utile e chi occupa può sperare di
rimanere a lungo nell'alloggio. A roma, ad esempio, ci sono mediamente 300 sgomberi
all'anno su circa 5mila alloggi abusivi, come dire che si può aspirare a rimanere fino a
16 anni in una casa abusiva.
Mentre la popolazione degli immigrati aumentava avvicinandosi alla media europea, il
nostro Paese ha ridotto lo stock di case popolari. Dapprima ha destinato i fondi della
Gescal, edilizia residenziale pubblica, al pagamento delle pensioni. Poi ha proceduto a
vendere gli alloggi pubblici, mediamente 20mila alloggi alienati ogni anno per pochi sol-
di (in media 23mila euro l'uno). Svenduti senza ristrutturarli. Lo Sblocca Italia continua
su questa linea, incentivando le dismissioni. Abbiamo, nel frattempo, smesso di costrui-
re nuove case popolari, quando nel Regno Unito e in Francia, in previsione degli effetti
della crisi, si facevano massicci investimenti in nuove case popolari. Certo, avevamo
vincoli di bilancio stringenti, ma anche quando i fondi erano disponibili, come nel caso
dei piani per l'Expo a Milano, si è scelto di ignorare l'edilizia popolare. E il risultato è
che l'Expo rischia di aprirsi con le barricate in strada. Vedremo se i piani per l'Olimpia-
de a Roma che Renzi vuole rilanciare contempleranno interventi a Tor Sapienza. Fatto
sta che il nostro Paeseha un patrimonio di edilizia residenziale pubblica fatiscente e in
diminuzione mentre lo stock del cosiddetto social housing (che comprende gli alloggi
di edilizia popolare o convenzionata forniti in cooperazione con il privato) è, in rappor-
to alla popolazione, il più basso d'Europa, ad eccezione di Ungheria, Grecia ed Estonia.
Paradossalmente le colpe di questo stato di cose sono proprio di chi oggi ne ottiene un
tornaconto elettorale. Il deterioramento delle case popolari , l'ampliarsi del divario fra
domanda ed offerta, hanno coinciso con la regionalizzazione dell'edilizia residenziale a-
bitativa. Le agenzie regionali non sono all'altezza e men che meno le società municipa-
li (come Metropolitana milanese) che ne rilevano quote pur non avendo la struttura
per riscuotere gli affitti e ristrutturare le case. Bisognerebbe revocare funzioni e patri-
monio di edilizia residenziale pubblica agli enti locali che hanno dimostrato di non sa-
perli gestire, invocando i "poteri sostitutivi" previsti dall'art. 120 della Costituzione.
Gestendo questo patrimonio centralmente, si potrebbe meglio resistere alle pressioni
delle lobby locali che hanno impedito che le case andassero ai più bisognosi. Sarà an-
che possibile beneficiare dei fondi europei per fare gli investimenti nella ristrutturazio-
ne delle case sfitte che possono, in tempi brevi, ridurre il divario fra domanda ed offer-
ta. Perchè una cosa è certa: se vogliamo continuare a puntare sull'immigrazione per
tappare i buchi del nostro stato sociale nell'assitere i minori e gli anziani non autosuf-
ficienti, se vogliamo attrarre immigrati più istruiti e che possano integrarsi nel nostro
tessuto sociale, non possiamo ignorare il problema di chi una casa non ce l'ha, non ha
i mezzi per comprarsela e, almeno in una fase iniziale, non riesce a pagarsi gli affitti
nelle aree metropolitane in cui il lavoro è concentrato.
Se invece non vogliamo investire in nuove case popolari e avere chi se ne occupa
veramente, non rimane che essere espliciti sui criteri di razionamento. La Lega ne
propone uno che è già stato in gran parte attuato: escludere gli immigrati dall'ac-
cesso alle case popolari. I non italiani sono nettamente sottorappresentati quando
si tenga conto del loro livello di reddito. Siamo uno dei paesi Ocse in cui il gap fra
immigrati e autoctoni nell'accesso a case popolari o con fitti convenzionali è più
forte. Escludendoli dalle nuove assegnazioni ridurrebbe solo marginalmente la lun-
ghezza della lista d'attesa per gli altri. La criminalità organizzata raziona i beneficia-
ri di occupazioni abusive in base ai servizi che le vengono forniti da chi cerca casa.
A Roma un fantomatico Comitato di Lotta per la Casa si faceva pagare dagli occu-
panti abusivi estorcendo da loro servizi in cambio di protezione. I centri sociali han-
no criteri di razionamento basati sulla cooptazione e la militanza.
Se si vuole ripristinare la legalità, lo Stato deve proporre un criterio di razionamento
e metterlo in atto. Oggi non è così. Sulla carta conta il reddito, ma il 15% di chi allog-
gia in case popolari è al di sopra della linea della povertà, mentre in Paesi in cui ci so-
no molte più case popolari ai non-poveri non va più del 2-3%, una percentuale che
probabilmente corrisponde a persone che sono da poco uscite dallo stato di bisogno.
Lucianone
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