Ultimo verdetto della scienza:
fuoriclasse si nasce
Una ricerca Usa mette fine all'eterna sfida tra talento
e fatica. Vince il primo, che nella ricetta del successo
conta quattro volte di più.
(da la Repubblica - 21 luglio 2014 - Enrico Franceschini, Londra)
"La pratica rende perfetti", afferma un vecchio detto. Più ti alleni, più avrai successo,
è l'opinione dominante, che a pronunciarla sia la prof di matematica o il nuovo allena-
tore del Manchester United. Ma un nuovo studio sull'argomento sembra ribaltare
l'eterna questione: se sia più il talento innato o l'esperienza a determinare l'abilità in
un mestiere, un'arte, una disciplina sportiva. Secondo una ricerca pubblicata dalla
rivista 'Psychological Science', l'esercizio fa non più del 20-25 per cento della differen-
za in campi come la musica, lo sport o gli scacchi, e ancora di meno (appena il 4 per
cento) negli studi accademici. In altre parole la pratica aiuta, questo è inequivocabile,
ma "non" rende perfetti, perlomeno non da sola, senza essere applicata a un talento
naturale. - E' un'affermazione che contraddice teorie date per certe da almeno ven-
t'anni, per l'esattezza da quando nel 1993 un team di ricercatori della Florida State
University, diretto dal professor Anders Ericsson, stabilì che l'esercizio ha un rilievo
enorme nelle prestazioni di professionisti di élite o anche di dilettanti di grande impe-
gno: collocando intorno all' 80 per cento il valore dell'allenamento in qualunque cam-
po umano. Quel concetto è stato popolarizzato più di recente da un guru, saggista e
giornalista del settimanale New Yorker, l'americano Malcom Gladwell, che in uno
dei suoi libri più famosi, Outliers (il titolo italiano è Storia naturale del successo),
aveva addirittura coniato una formula: la "regola delle 10 mila ore", vale a dire
che chiunque si impegni per 10 mila ore in qualcosa riuscirà a farla con estrema
abilità e risultati eccellenti. Diecimila ore di pratica e sarai perfetto. proprio come
sostiene il proverbio.
Il nuovo studio, opera di tre psicologi, Zach Hambrick della Michigan State University,
Brooke Macnamara della Case Western University e Frederick Oswald della Rice
Università, analizza i risultati di 88 ricerche sul tema esaminando un ampio raggio di
discipline per giungere alla conclusione contraria. La pratica aiuta, ma non è sufficien-
te per raggiungere il successo. Possiamo allenarci 10 mila ore a tennis, o anche 100
mila, ma non diventeremo tutti Federer. Il mondo della psicologia, riferisce il New York
Times, si divide tra i due campi: "Il pendolo oscilla perennemente tra pratica e talento,
siamo solo di fronte a un dibattito che non permetterà conclusioni definitive", osserva
il quotidiano newyorchese.
che non dipendono nè dalla genetica (l'innato talento) nè dalla quantità di ore ( la
pratica) per determinare il successo. Uno è l'età a cui ci si applica: un conto è studia-
re il violino a 5 anni, un altro a 50, e vale anche per il basket o per le lingue (specie
se uno impara queste ultime fin dalla nascita, come nel caso del bilinguismo).
Un secondo fattore è il livello dell'allenamento: tra campioni di scacchi con abilità si-
mili, il numero di ore dedicate all'esercizio varia notevolmente da, da 3 mila a 25 mila.
I più forti magari si sono allenati meno ore, ma hanno affrontato i tornei più impegna-
tivi e hanno imparato a giocare sotto pressione. Un terzo fattore è il modo in cui ci
si esercita: vari studi sembrano indicare che studiare da soli dà risultati migliori, che
cambiare il luogo e l'orario dell'allenamento è meglio che farlo sempre nello stesso
luogo alla stessa ora, che mescolare vari esercizi in una singola sessione (materiale
vecchio e nuovo, oppure stile libero e dorso) è più utile che concentrarsi su un solo
esercizio.
Lucianone