13 marzo '23 - lunedì 13th March / Monday visione post - 4
(da la Repubblica - 11 settembre '20 - di Massimo Cacciari)
L'Europa che non pensa più
Prchè ha smesso di rincorrere l'idea di comunità
Può un organismo politico vivere senza pensare a un proprio Fine? Senza concepire
la propria struttura in qualche modo come esemplare, pur nel realistico riconoscimen-
to dei limiti della propria potenza? Coloro che,dopo il suicidio d'Europa e la sua detro-
nizzazione nella prima metà del Novecento, hanno voluto e avviato il processo per
farne una comunità, avrebbero certamente risposto no, non è possibile. oggi la stessa domanda
sembra scomparsa; l'interrogativo non inquieta più nessuno della leadership europea. Ogni pro-
blema è ridotto alla logica dello scambio e delle compatibilità economico-finanziarie. Credo che
tutti, anche "grazie" alla pandemia, abbiano compreso come lo "spazio europeo" segnato dal mer-
cato e dalla moneta, sia conditio sine qua non per sopravvivere nella competizione globale. Forse
la stagione del nazionalismo populista è finita. Ma qui il discorso si arresta. A che cosa è chia-
mata l'Europa? Quale ne dovrebbe essere il significato nel mondo contemporaneo? Tutte queste
suonano ormai domande astratte, prediche inutili. Lasciamo le "missioni" a papa Francesco, ri-
pete il miserabile realismo dei mercati.
Non fu così per un brevissimo periodo a cavallo della caduta del Muro e della fine della "terza
guerra mondiale"catastroficamente perduta dall'Urss. Vi fu chi comprese che la fine del tragico
Novecento offriva all'Europa una grande e irripetibile occasione per affermare una una propria
nuova, originale "centralità". Anche riscoprendo una sua "storia segreta", voci inascoltate della
sua tradizione. - La costruzione dell'unità politica delle nazioni europee avrebbe potuto costi-
tuire un polo di riferimento pratico e culturale per il mondo che affrontava il salto d'epoca. E
la proposta europea a questo mondo poteva essere una soltanto: ecco, noi usciamo dall'antica
forma Stato del Moderno, dai suoi assetti gerarchici e centralistici; noi riteniamo che il potere
possa davvero essere partecipato , e che tanto meglio funzioni un organismo politico quanto
più ricca al suo interno è la vita autonoma di corpi intermedi, di partiti, di sindacati;noi rite-
niamo che la diversità di lingue, tradizioni, religioni non contraddica affatto la volontà di
federarci insieme, ma, al contrario, ne costituisca lo stesso presupposto. Europa è un nome
plurale. Europa non cerca l'unità dell'Uno, ma l'Uno che sono (Unum sumus!)). - E questa
soltanto ci sembra essere la cultura politica capace di governare un mondo policentrico, la
cultura politica che contraddice l'insorgere di nuove volontà egemoniche imperiiali.
Secondo questo suo interno assetto, mostrandosi in questa forma, l'Europa avrebbe dovuto
svolgere il proprio ruolo internazionale, intervenire nelle crisi destinate ad aprirsi per il venir
meno degli equilibri della guerra fredda. La sua autorevolezza internazionale poteva derivare
soltanto dalla forza della sua proposta politica, non certo da riacquisiti imper i militari o eco-
nomici. Tutto ciò fu qua e là pensato, e tutto fu contraddetto dall'azione seguente. Nel corso
del ventennio successivo "l'arcipelago" europeo venne interrato da interventi che erano di
volta in volta nient'altro che il prodotto di faticosi compromessi tra Stati "sovranisti" , per i
quali i principi fondamentali di ogni concepibile comunità , quelli di solidarietà e coopera-
zione, di amicizia, avrebbero detto i nostri Antichi, non erano che occasioni per qualche
sfoggio retorico. Non essendo prevalsa una nuova visione dell'Europa al suo interno, non
poteva di conseguenza affermarsi alcun ruolo dell'Europa nelle grandi crisi che abbiamo
attraversato e stiamo vivendo. Che cosa è mancato? E' mancato il federatore. Nel non
cogliere questo aspetto i federalisti europei hanno peccato di utopismo. L'unità politica
non poteva essere perseguita se fosse mancata la potenza europea chiamata a guidarne il
processo. Che sentisse, cioè, come propria autentica vocazione la realizzazione di quella
unità. A un Fine di tale valore non si può tendere attraverso compromessi tra interessi di
Stato. Ma il federatore, dopo la caduta del Muro e l'unificazione tedesca, non poteva es-
sere che la Germania. Questo è il colossale paradosso del destino europeo! Lo Stato attore
fondamentale, protagonista assoluto, responsabile primo della disfatta dell'Europa era di-
ventato l'unico che potesse guidarne la riaffermazione politica,secondo una forma, quella
federale, che rovesciava in toto le concezioni del potere che lo avevano portato a trascina-
re il mondo nella più immane delle tragedie. Era uno straordinario racconto, un autentico
nito in cui la nuova Germania avrebbe potuto rappresentarsi. Occorreva certo un'audacia
politica eccezionale, superare antiche paure, resistenze durissime del'opinione pubblica.
Forse in alcuni leader, forse persino nella Merkel per brevi istanti, l'idea della grande oc-
casione è venuta. Ma i fatti l'hanno puntualmente smentita. Ed è stata Grecia, sono state le
tragedie dell'immigrazione. Sul pilastro della stabilità la Germania ha legato l'Europa e ha
legato se stessa, l'affermazione possibile, cioè, di una sua autentica auctoritas europea e in-
ternazionale. - Il momento in cui poteva ancora avere un significato pratico pensare a una
destinazion europea "in grande stile", scomodando magari - con la germania federatore -
i Lessing, gli Herder, i Goethe, è tramontato per sempre. Dobbiamo sapere entrare respon-
sabilmente nel tempo delle "serene rinunce". (Cioè) Un'Europa potenza politico-culturale,
un'Europa che sa trasformare in norme vincolanti, in positivo diritto al proprio interno gli
appelli ai "diritti umani", alla "difesa dell'ambiente", un'Europa che mostra come si possano
vincere ingiustizie e disuguaglianze intollerabili, lasciamo che viva in noi come "idea rego-
lativa". Anche di dover-essere vive il povero mortale. Ma tanto più fermamente, allora, esi-
giamo atti e decisioni per superare i blocchi che le procedure comunitarie comportano, per
sostenere con tutti i mezzi necessari chi da questa crisi è stato più duramente colpito, perchè
non si dilapidi anche quel patrimonio di solidarietà che è contenuto nelle vecchie politiche
di Welfare. Difendiamo la nostra unità economica, eliminiamo quelle incredibili disparità
in campo fiscale e sociale che la rendono debole. LA CRISI DEL COVID pare che almeno
questa esigenza l'abbia fatta intendere e che sulla sua prospettiva si stia bene o male proce-
dendo. Su tutto il resto credo onesta una sola parola: rinunciamoci. Di ciò che è impossibile
fare, meglio tacere.
Lucianone